Non ho mai compreso come la notte riesca a cambiare le persone.
E’ una regola non scritta.
Tante giornate passano allo stesso modo, tutte uguali.
Una la fotocopia dell’altra.
O al contrario ognuna diversa dall’altra, ma la costante rimane, una costante c’è, esiste.
Sei te stesso, adagi il corpo sul letto, affievolisci l’ultima fonte di luce artificiale rimasta in vita per orientarti nello spazio circostante, rilassi le palpebre e attendi il sonno.
Superate le lunghe ore di oscurità , i flebili raggi del sole rischiarano la stanza.
Ritrovi prima il corpo e successivamente tutto quello portato dentro di te; siano esse paure, convinzioni, certezze, emozioni, sentimenti.
Ecco la costante:
la sicurezza di ricominciare la nuova giornata dallo stesso punto in cui la si era lasciata prima della visita di Morfeo.
Una delle poche certezze a cui affidarsi.
Invece no.
L’apparente certezza crolla, perde le sue fondamenta, si inabissa.
All’improvviso, non si sa come, non si sa perché, non si sa quando, qualcosa va storto.
Il sole inizia a illuminare la stanza, gli occhi riprendono vita lentamente, il corpo rimane immobile per qualche istante: è pesante, privo di sensibilità .
La mente cerca di comprendere, focalizzare, intuire cosa sia accaduto.
Passa in rassegna ogni angolo della stanza.
Ogni oggetto viene sottoposto ai raggi X.
Il cervello cerca di ricostruire il mondo circostante tentando di allinearlo ai ricordi custoditi all’interno della propria memoria.
Apparentemente sembra tutto uguale, ma qualcosa è cambiato.
Esteriormente sei sempre tu, ma dentro qualcuno ha sostituito qualche pezzo, ha riscritto qualche pagina, ha cancellato qualche ricordo o lo ha rimpiazzato con un altro, migliore o peggiore non si sa, ma diverso.
Ti guardi allo specchio, ogni ruga è al suo posto, ogni capello è rimasto incollato alla testa, ma non ti riconosci.
Qualcosa si interpone tra te e lo specchio, abbassi lo sguardo, pensi, cerchi di ascoltare quella voce interna che normalmente ha sempre tanto da dire, ma oggi è muta, oggi è stranamente assente.
Si prende gioco di te, nessun suggerimento.
Durante la giornata dovrai o potrai tentare di comprendere cosa non è più come prima.
Una beffa, un gioco senza regole o una fissata in contrasto con l’altra, tutto pensato solo per divertire quel voyeurista del destino.
Così tutto cambia con l’apparenza esteriore dell’essere tutto identico.
Cambiamenti che ti faranno percorrere strade differenti da quelle del giorno precedente.
Strade differenti in cui non troverai più gli stessi alberi ai lati, gli stessi fiori sui bordi, la stessa illuminazione, lo stesso percorso, lo stesso arrivo.
Forse ce ne saranno di più belli, forse di più brutti, di certo non potrai saperlo perché non potranno essere confrontati.
Forse all’arrivo troverai un regno in cui sarai il sovrano o forse all’improvviso finirai in un burrone senza fine.
E in questo mondo di incertezze l’unica certezza rimarrà la certezza del cambiamento -subìto -.
La candela
Il sole dopo aver compiuto il suo lavoro quotidiano si è congedato.
Ha lasciato il posto al suo fratello gemello siamese: la notte.
Continuano a rincorrersi senza acciuffarsi quei due, non si sovrappongono, non si infastidiscono l’un l’altro, ma non riescono ad incontrarsi pur essendo legati indissolubilmente.
Il manto di oscurità regalato dalla notte scurisce l’esterno del mondo e gli ambienti interni delle case.
Le camere, private della luce, assumono tutte la stessa forma, indefinita, accomunate dall’impossibilità di distinguerne i confini, dove è infattibile notare i suppellettili; si può persino dimenticare l’oggetto privo di importanza poggiato nell’angolo più remoto del mobile alto al centro della parete.
Ma un luogo comune recita: “perdendo un senso si acuiscono tutti gli altri”.
E dopo una giornata complessa, si sente la necessità di spegnere qualche senso per dare vigore agli altri o meglio, si può decidere di abbassare il volume di tutti i sensi, solo per riprendere a respirare lentamente.
La necessità di far emergere dal profondo, far defluire, cacciando via con forza: problemi, malumori, negatività , diventa un’esigenza impellente.
Per questo motivo – rendere i sensi innocui – sul mobile poggiato alla parete opposta del letto si posa una candela, accesa.
Una piccola fiamma capace di dare la quantità giusta di luce per riscaldare i colori scuri dell’ambiente.
Mai immobile, disegna ombre in continua evoluzione, si inseguono, danzano, giocano tra loro.
Il profumo rilasciato accarezza dolcemente le narici.
Tutto concorre per creare un angolo protetto in cui nulla potrà depistare il senso di pace ricercato.
E funziona.
La pace arriva, il respiro rallenta, i muscoli si rilassano, la mente smette di correre, l’anima ritrova l’amicizia del cuore.
Così, disteso sul letto, con le mani dietro la nuca, le gambe poggiate una sull’altra, senza nessun rumore in grado di disturbare la quiete creata, ascolti il racconto fatto da quella piccola fiamma.
Pensi a cosa vuole dirti.
Pensi che la sua vita non è poi così diversa dalle vite di tutti.
Lei per vivere, per donare quel senso di pace, deve bruciare, deve usare l’ossigeno, esaurire lo stoppino, consumare la cera.
Quella candela dopo essere nata avrà a disposizione un tempo finito per vivere, e bello per quanto potrà essere, dovrà consumare qualcosa, dovrà usare ciò che non le appartiene e alla fine si spegnerà , inesorabilmente.
È il racconto della vita.
La differenza si troverà nel modo in cui avrà consumato i suoi elementi.
Se bruciando avrà regalato pace, armonia, serenità allora non sarà stata una candela sprecata.
Così come una vita non sarà stata sprecata se sarà stata vissuta senza sprecare il bello donato da ogni singolo giorno.
Perchè ogni giorno qualcosa di bello serve trovarlo, altrimenti accendere una candela sarà stato solo tempo perso.
GY
Trasloco
A prima vista può sembrare un contenitore inanimato.
Assume dimensioni, forme, colori diversi, ma rimane pur sempre un contenitore.
Quattro pareti, un tetto, una piccola apertura per oltrepassarlo ed ecco servita la prima definizione di casa.
Poi avviene di utilizzare quel contenitore: quotidianamente.
Diventa l’amico – sempre presente – di tutto ciò accade a chi quel contenitore lo vive, lo abita, a volte lo detesta.
Non giudica mai, protegge – quasi sempre – e tiene fuori ciò non vuoi venga mostrato.
E mentre i giorni passano, lo riempi di oggetti – diversi tra loro – alcuni con un grande significato, altri inutili.
La metafora della vita di tutti i giorni.
Lo personalizzi, lo trasformi, lo rendi tuo oppure a tua immagine, diventa una parte di te perché racconta te.
Ci si può fare un viaggio in una casa, si può scorgere – senza farselo raccontare – chi è stato, chi è, e forse chi sarà la persona contenuta in quel contenitore.
Ma senza preavviso la scatola diventa troppo stretta oppure il contenuto troppo ingombrante.
Ingombrante fino al punto da non andare più d’accordo con il contenitore: si scontrano, litigano; finché non si deciderà di sostituirlo con uno più grande, piccolo o semplicemente diverso.
La decisione è ormai presa: qui non si può più restare.
“E’ tutto pronto, devo solo traslocare! “
Il momento in cui tutto cambia: il trasloco.
Pieni di speranze, aspettative, progetti, si usa questo momento per decidere cosa vale la pena far rimanere un ricordo e cosa invece è bene dimenticare.
“Ooh quanti ricordi questo oggetto, non ricordavo di averlo, nella nuova casa avrà un posto in prima fila!”
“No, tu no, tu è bene finisca la tua vita terrena sul fondo di un cestino, ti porti dietro troppi ricordi negativi: devi essere dimenticato”
E con questo rituale si passa in rassegna ogni singolo oggetto, ricordo, pezzo di vita, prima di venire stipato all’interno di un grosso camion, con il compito – a volte ingrato – di riconsegnare – a noi stessi – ciò abbiamo deciso essere parte di noi.
Si mette nelle mani di alcuni sconosciuti qualsiasi la nostra storia, il nostro passato, i nostri ricordi.
Riponiamo una fiducia quasi incondizionata in queste persone.
Potrebbero distruggere tutto, potremmo ritrovarci con un pugno di mosche in mano se solo lo volessero o se il destino decidesse in tal modo.
Non è questo il caso.
Tutto avrà una nuova collocazione all’interno del nuovo contenitore, compresa l’importanza data a quel ricordo, a quell’oggetto, a quel frammento di passato.
Perché questo siamo: siamo futuro poggiato su uno strato – quasi solido – di passato.
Perché potremo traslocare infinite volte, ma la nostra storia, le nostre esperienze, il nostro essere ci seguirà per dirci da quale punto ricominciare, senza dover fare passi indietro e ripercorrere gli stessi medesimi pezzi sbagliati di storia: errori.
In braccio a mamma
E’ impossibile averlo perso.
Dove lo avrò mai lasciato?
Ho rovistato in ogni angolo di casa e non riesco a trovarlo.
Sarà sicuramente in uno dei cassetti del piccolo mobile all’angolo.
Lì non guarda mai nessuno, anche la polvere lo ignora, ma ormai manca da perquisire solo lui.
E mentre sono alla ricerca dell’oggetto perduto salta fuori, dal nulla, una vecchia foto.
Una foto scattata con una macchina fotografica a rullino, stampata su carta e riposta in attesa di scatenare ricordi, emozioni.
E’ la fortuna di chi come me ha vissuto quegli anni ed ora può permettersi il lusso di ritrovare, per caso, pezzi di vita sparsi qua e là .
Le foto sono così, se ne stanno in agguato, quatte quatte in attesa di poterti aggredire, saltare al collo e morderti.
Un po’ di luce e sbam, ti danno un pugno nella pancia e smetti di respirare per un istante.
Le emozioni legate ad una foto sono come una valanga, puoi galleggiarci sopra, così come puoi esserne completamente sepolto.
Non è da meno questa.
Un bimbo in braccio alla sua mamma.
Una donna nel pieno della vita nei suoi anni più belli.
Una giovane donna con chissà quali aspettative, desideri, speranze.
E’ molto strano vedere i propri genitori da giovani, sarebbe stato bello conoscerli, parlarci, uscirci insieme.
Chissà se saremmo potuti essere amici o avremmo litigato con la stessa forza di oggi, tanto poi tutto passa, si sistema, senza rancore, volendosi più bene di prima.
Ma basta fare pensieri di questo tipo, c’è un oggetto da cercare e lui non vuole farsi trovare.
Vecchio al balcone
Ci sono giorni in cui non si ha nulla da fare: nessun impegno, nessuna sveglia, nessuna scadenza.
Sei consapevole di poter oziare, poltrire, girarti i pollici senza subire le ire dei sensi di colpa: sempre fin troppo presenti, per fin troppi motivi.
Ti è permesso usare il tempo solo per sprecarlo, buttarlo, lasciarlo andare.
Oggi è un giorno di quelli, non il primo, non l’ultimo, uno dei tanti.
Un alito di vento fresco muove i suoni dall’esterno della casa fin dentro le stanze.
Trasporta sulle sue spalle le voci di un gruppo spensierato di amici, le risate dei bambini troppo impegnati a rincorrersi, i canti di una coppia di passerotti intenti a corteggiarsi.
Io invece, me ne sto in panciolle avvolto dal torpore regalatomi dalla morbidezza del divano.
I piedi poggiati su una sedia capitata lì per caso, mi regalano una posizione tale da far invidia agli antichi romani mentre consumavano i loro pasti nel triclinio.
Sollevando lo sguardo davanti a me si apre una grande finestra.
Un oblò sul mondo esterno.
Un esterno colorato da giovani foglie nate sugli alberi da poco, dai tetti ripuliti dalla recente pioggia e sullo sfondo, aguzzando la vista, le non troppo lontane montagne.
A rovinare la morbidezza di questo dipinto d’artista: un grosso palazzo.
Un ingombrante rettangolo grigio fa da sfondo a buona parte della vista.
Il progettista di questo mostro, nel peggior giorno della sua vita, lo ha disegnato tracciando all’interno del rettangolo tanti quadrati tutti uguali fra loro.
Una miriade di balconcini abbandonati a se stessi privi di qualsiasi personalità .
Tutti uguali, tutti anonimi, tutti tristi.
Tutti tranne uno.
Il primo in alto a sinistra è abitato costantemente da un anziano signore.
Un vecchietto sorridente, sguardo attento, capelli color argento.
Piegato dal peso degli anni si muove appoggiato al suo immancabile bastone di legno nero: piccoli passi lenti, ma dignitosi, sicuri, certi.
Sfidando la monocromia del palazzo, ha arredato la sua loggia con quattro gerani rossi appesi al balcone, una pianta con grandi foglie verdi su un lato e una piccola seggiola di metallo marrone sull’altro.
Il suo piccolo trono.
Sì, perché lui è sempre lì, seduto su quel trono a guardare cosa succede al di sotto dei suoi piedi, ma è ciò che sembra con un’occhiata superficiale.
Se invece si ha la fortuna di poterlo osservare più spesso, si noterà la sua presenza sempre in quella stessa posizione, con lo sguardo rivolto sempre verso la stessa direzione.
Non so perché sia sempre lì, ma:
voglio pensare sia lì ad attendere il ritorno della compagna di una vita andata via troppo presto;
voglio pensare sia lì ad attendere il ritorno di un figlio troppo occupato con la sua quotidianità per ricordarsi di avere un padre ad attenderlo;
voglio pensare sia lì ad attendere un amico che non verrà mai.
Ma non voglio saperlo lì triste, perché se ha colorato il suo balconcino rompendo la malinconia del grigiore del suo palazzo non può essere triste, ma è solo un vecchietto dalla incrollabile speranza di poter aprire la porta d’ingresso e aggiungere, su quel balconcino, un’altra sedia a fianco della sua.
Gentilezza
Un vecchio edificio dalla forma perfetta, fuori.
Il palcoscenico giusto per la rappresentazione quotidiana di ciò che avviene, dentro.
Sulla sinistra del grande salone centrale, gli ingressi delle innumerevoli stanze svelano la presenza di un consueto film ripetuto usualmente dalle persone del posto.
Un alveare di minuscoli ingressi dove la gente si stipa per i motivi più disparati.
Sono tutti uguali, quasi identici.
Stessa forma, stessa dimensione, stesso colore.
Nessun particolare mette in risalto uno a discapito dell’altro.
Chi ha disegnato quel posto lo ha fatto inserendoci un pizzico di ironia.
Se non conosci il posto ti ci devi perdere almeno una volta.
La parafrasi della vita di ognuno di noi.
L’eccezione la si scopre conservando la pazienza e avendo il coraggio di arrivare alla fine.
Ancora la parafrasi della vita di tutti i giorni.
L’ultimo ingresso, prima dell’uscita, fa da supporto ad un piccolo quadro con all’interno incastonata una frase.
Non un’opera d’arte, non un dipinto, non un basso rilievo, no.
Una frase.
Facile da ricordare.
Quasi banale leggendola con la dovuta superficialità .
“La gentilezza ci rende persone migliori”.
Ironicamente, la scoperta del secolo.
Chissà perché qualcuno abbia sentito la necessità di rimarcare qualcosa di così ovvio.
Chissà perché proprio in quel luogo dove tutto sembra uguale.
Qualcosa che tutti noi facciamo e perseguiamo con fermezza, credendoci, ogni giorno.
Invece no, purtroppo non è così.
Quel qualcuno è stato saggio, ha cercato di ricordarci cosa dovremmo essere.
Persone gentili.
I gesti di tutti i giorni, invece, raccontano una storia diversa.
Ci basta così poco per strappare con violenza quel quadro, distruggendolo in milioni di minuscoli pezzetti.
Riusciamo a fatica ad esserlo con noi stessi, ma soprattutto con le persone vicine.
Tutti troppo preoccupati ad inseguire i propri egoismi.
Pronti a giustificare con i mezzi più disparati una parola di troppo, un tono fuori luogo, un rimprovero non dovuto.
Guardiamo con sospetto chi non conosciamo, e come tale, il più delle volte lo ignoriamo.
Un gesto gentile lo regaliamo come si regala un gioiello prezioso.
Per farlo risaltare, per raccontarlo e farlo raccontare.
Non perché lo sentiamo nostro.
Non siamo più abituati a vedere la gentilezza come un pregio da coltivare, annaffiare e far sbocciare ad ogni occasione.
Dovremmo cominciare a crederci e dimostrarlo per esserlo davvero.
Gentili.
Gli errori
Dormire, l’atto quasi più naturale del mondo, si è trasformato in una sfida degna della guerra del Peloponneso.
Il continuo esplorare ogni possibile angolo del letto, nel tentativo di scoprire chissà quali terre, emerse nella brevissima notte precedente, non ha sortito nessun esito.
La piccola macchina del caffè, tanto giovane da offrire oro nero di pessimo gusto, ha avuto il buon senso di non commentare ciò che aveva davanti.
I silenzi del mancato mattino, sono interrotti dall’avvio di tante giornate che stentano, loro malgrado, a partire.
Nevica.
Il freddo ha avvolto tutto ciò possa essere capitato, anche solo per caso, sotto la sua mano.
Una distesa di ghiaccio bianco, fa da regia ad un film comico strabordante di goffi movimenti innaturali.
Il cambio di programma improvviso, mette a dura prova la ritualità dei momenti scanditi da una normalità ormai venuta meno.
È come guidare su una strada piena di curve, tentando di andare sempre dritto.
Puoi mentire a te stesso.
Puoi tentare di ignorare tutte quelle curve, ma prima o poi dovrai cedere e seguire la direzione scelta da qualcun altro, da chi in precedenza ha deciso che in quel determinato punto ci debba essere una svolta, un tornante, un tunnel.
Procedi a tentoni tra lo scandire del tempo che cinico, si beffa di te.
Rallenta arbitrariamente il suo corso, nel momento in cui tutto precipita, per riprendere beffardo a correre quando vorresti goderti quel microscopico momento di vittoria.
Speri sia solo il breve ossimoro della più bella giornata della tua vita.
Non oggi.
Forse domani.
Oggi ci sono ancora tanti piccoli gesti sbagliati da compiere.
Oggi ci sono ancora tante piccole cose sbagliate da dire.
Oggi ci sono ancora tanti piccoli errori da commettere.
In fondo il buongiorno si vede dal mattino.
No?