Se cerchi un tesoro devi cercarlo nei posti meno visibili, non cercarlo nelle parole della gente, troveresti solo vento. Cercalo in fondo all’anima di chi sa parlare con soli silenzi.
Dovrei chiedere scusa a me stessa per aver creduto sempre di non essere mai abbastanza.
Abbiamo fame di tenerezza, in un mondo dove tutto abbonda siamo poveri di questo sentimento che è come una carezza per il nostro cuore. Abbiamo bisogno di questi piccoli gesti che ci fanno stare bene… la tenerezza è un amore disinteressato e generoso, che non chiede nient’altro che essere compreso e apprezzato
A volte il silenzio dice quello che il tuo cuore non avrebbe mai il coraggio di dire.
Cerca di accettarti così come sei. Non cambiare per piacere agli altri. Chi ti ama accarezzerà le tue insicurezze. Chi vorrà starti accanto si accoccolerà alle pieghe della tua anima. Sii te stesso sempre. Fatti un dono vero resta come sei.
Io sono con te in ogni maledetto istante che ci vuole dividere e non ci riesce.
Amare è rischiare di essere rifiutati. Vivere è rischiare di morire. Sperare è rischiare di essere delusi. Provare è rischiare di fallire. Rischiare è una necessità. Solo chi osa rischiare è veramente libero.
Le nostre giornate, solitamente, sono scandite da ritmi in grado di far impallidire un batterista metal mentre si esibisce in uno dei suoi assoli più riusciti. Incastriamo il lavoro, gli impegni, le commissioni come fosse un immenso puzzle. Puzzle costruito, pezzo dopo pezzo, facendo attenzione a scovare quello giusto al primo tentativo. Ma ahimè, a volte capita, di prenderne uno errato e inevitabilmente tutto deve essere riprogrammato, rivalutato, aggiustato. Un cascata di eventi difficile da contenere. Allo stesso modo gestiamo il tempo libero. Avidi nel voler imparare nuove attività , conoscere nuove persone, provare esperienze diverse, da non essere capaci di godere del presente. Nella testa il pensiero ricorrente è uno solo: il momento successivo. Lo facciamo tutti, lo faccio anche io. Questa routine andrà avanti finché non si avvertirà l’opprimente necessità di una pausa, di staccare, di dire basta. E’ quello il momento in cui sfrutti la fortuna di avere a disposizione dei posti magici dove potersi ricaricare, svuotarsi, riprendere a vivere. Ognuno di noi ne ha uno, non è un posto oggettivo, ma scelto tra tanti, il più delle volte trovato per caso. Il mio: una panchina, verde. In una piazza dalla pianta quadrata e illuminata interamente da un tiepido sole di giorno ed un esercito di lampade dai colori caldi di notte. Circondata su tre lati da storici palazzi costruiti lì volutamente – per abbracciare chiunque passi o si fermi in quell’angolo – ricoperta da brillanti e levigate pietre naturali. Il quarto lato aperto. Una finestra affacciata su una distesa d’acqua azzurra mossa leggermente dai venti spinti verso il basso dalle vicine montagne. Acqua mai immobile, ricoperta da una fitta rete di increspature in movimento. Questo movimento diffonde una delicata sinfonia dai toni lievi tale da permettere all’anima di riprendere a respirare. Ed è lì, in quel posto specifico dove tutto si ferma, dove non ci sono lotte, dove si è soli con se stessi che tutto si riallinea, tutto ritorna alla normalità . Perché nonostante ci siamo costruiti una vita fatta di affanni, regole, piccoli scontri travestiti da consuetudini, a volte quello di cui abbiamo bisogno è solo un po’ di pace.
Ci sono giorni in cui non si ha nulla da fare: nessun impegno, nessuna sveglia, nessuna scadenza. Sei consapevole di poter oziare, poltrire, girarti i pollici senza subire le ire dei sensi di colpa: sempre fin troppo presenti, per fin troppi motivi. Ti è permesso usare il tempo solo per sprecarlo, buttarlo, lasciarlo andare. Oggi è un giorno di quelli, non il primo, non l’ultimo, uno dei tanti. Un alito di vento fresco muove i suoni dall’esterno della casa fin dentro le stanze. Trasporta sulle sue spalle le voci di un gruppo spensierato di amici, le risate dei bambini troppo impegnati a rincorrersi, i canti di una coppia di passerotti intenti a corteggiarsi. Io invece, me ne sto in panciolle avvolto dal torpore regalatomi dalla morbidezza del divano. I piedi poggiati su una sedia capitata lì per caso, mi regalano una posizione tale da far invidia agli antichi romani mentre consumavano i loro pasti nel triclinio. Sollevando lo sguardo davanti a me si apre una grande finestra. Un oblò sul mondo esterno. Un esterno colorato da giovani foglie nate sugli alberi da poco, dai tetti ripuliti dalla recente pioggia e sullo sfondo, aguzzando la vista, le non troppo lontane montagne. A rovinare la morbidezza di questo dipinto d’artista: un grosso palazzo. Un ingombrante rettangolo grigio fa da sfondo a buona parte della vista. Il progettista di questo mostro, nel peggior giorno della sua vita, lo ha disegnato tracciando all’interno del rettangolo tanti quadrati tutti uguali fra loro. Una miriade di balconcini abbandonati a se stessi privi di qualsiasi personalità . Tutti uguali, tutti anonimi, tutti tristi. Tutti tranne uno. Il primo in alto a sinistra è abitato costantemente da un anziano signore. Un vecchietto sorridente, sguardo attento, capelli color argento. Piegato dal peso degli anni si muove appoggiato al suo immancabile bastone di legno nero: piccoli passi lenti, ma dignitosi, sicuri, certi. Sfidando la monocromia del palazzo, ha arredato la sua loggia con quattro gerani rossi appesi al balcone, una pianta con grandi foglie verdi su un lato e una piccola seggiola di metallo marrone sull’altro. Il suo piccolo trono. Sì, perché lui è sempre lì, seduto su quel trono a guardare cosa succede al di sotto dei suoi piedi, ma è ciò che sembra con un’occhiata superficiale. Se invece si ha la fortuna di poterlo osservare più spesso, si noterà la sua presenza sempre in quella stessa posizione, con lo sguardo rivolto sempre verso la stessa direzione. Non so perché sia sempre lì, ma: voglio pensare sia lì ad attendere il ritorno della compagna di una vita andata via troppo presto; voglio pensare sia lì ad attendere il ritorno di un figlio troppo occupato con la sua quotidianità per ricordarsi di avere un padre ad attenderlo; voglio pensare sia lì ad attendere un amico che non verrà mai. Ma non voglio saperlo lì triste, perché se ha colorato il suo balconcino rompendo la malinconia del grigiore del suo palazzo non può essere triste, ma è solo un vecchietto dalla incrollabile speranza di poter aprire la porta d’ingresso e aggiungere, su quel balconcino, un’altra sedia a fianco della sua.