Io sono, si perdoni la metafora, un sepolcro ambulante, che porto dentro di me un uomo morto, un cuore già sensibilissimo che più non sente.
Zibaldone 4149
È cosa evidente e osservata tuttogiorno, che gli uomini di maggior talento sono i più difficili a risolversi tanto al credere quanto all’operare; i più incerti, i più barcollanti e temporeggianti, i più tormentati da quell’eccessiva pena dell’irresoluzione; i più inclinati e soliti a lasciar le cose come stanno; i più tardi, restii, difficili a mutar nulla del presente, malgrado l’utilità o necessità conosciuta. E quanto è maggiore l’abito di riflettere e la profondità dell’indole, tanto è maggiore la difficoltà e l’angustia di risolvere.
L’avvocato del diavolo un film del 1997 diretto da Taylor Hackford e interpretato da Al Pacino nei panni di John Milton, Keanu Reeves interpreta Kevin Lomax e Charlize Theron è Mary Ann.
Milton: Avevi ragione su una cosa Kevin: io stavo osservando. Era più forte di me. Osservavo e aspettavo. Non potevo farne a meno. Ma non sono un burattinaio Kevin. Io non faccio succedere le cose. Non è così che funziona. Kevin: Che cosa hai fatto a Mary Ann? Milton: Libero arbitrio! È come l’ala della farfalla: una volta toccata, non si solleva più da terra. No. Io ho solo preparato la scena. I fili te li tiri da solo. Kevin: Che cosa hai fatto a Mary Ann? Milton: Una pistola? Qui? Kevin: Ti ho chiesto che cosa hai fatto a mia moglie! Milton: Beh. Su una scala da uno a dieci, nella quale dieci è l’azione più depravata del teatro sessuale conosciuta dall’uomo e uno la media normale del venerdì sera in casa Lomax io direi, senza peccare di immodestia, che Mary Ann ed io siamo arrivati più o meno a sette!
John: Io ho concluso. La vanità è decisamente il mio peccato preferito. Kevin è elementare: la vanità è l’oppiaceo più naturale. Non è che non ti importasse niente di Mary Ann, Kevin. E’ solo che tu eri un po’ più impegnato con un’altra persona, te stesso.
John: Voglio che tu sia te stesso. Lasciate che te lo dica figliolo: il senso di colpa è come un sacco pieno di mattoni, non devi fare altro che scaricarlo! Christabella: Ehi lo so a cosa stai pensando, ci sono passata anche io, vieni qua, dai lasciati andare. Kevin: No, non posso farlo. John: Per chi è che ti incolli tutti quei mattoni, si può sapere? Dio? È così? Dio. Beh Kevin, ti voglio dare una piccola informazione confidenziale a proposito di Dio. A Dio piace guardare. È un guardone giocherellone, riflettici un po’. Lui da all’uomo gli istinti. Ti concede questo straordinario dono e poi che cosa fa? Te lo giuro che lo fa per il suo puro divertimento. Per farsi il suo bravo, cosmico spot pubblicitario del film. Fissa le regole in contraddizione, una stronzata universale. Guarda ma non toccare, tocca ma non gustare, gusta ma non inghiottire. E mentre tu saltelli da un piede all’altro lui che cosa fa? Se ne sta lì a sbellicarsi dalle matte risate! Perché? È un moralista! È un gran sadico! È un padrone assenteista, ecco che cos’è! E uno dovrebbe adorarlo?! No, mai! Kevin: Meglio regnare all’inferno che servire in Paradiso, non è così? John: Perché no? Io sto qui col naso ben ficcato nella terra e ci sto fin dall’inizio dei tempi. Ho coltivato ogni sensazione che l’uomo è stato creato per provare! A me interessava quello che l’uomo desiderava e non l’ho mai giudicato! E sai perché? Perché io non l’ho mai rifiutato, nonostante la sua maledetta imperfezione. Io sono un fanatico dell’uomo! Sono un umanista. Probabilmente l’ultimo degli umanisti. Chi sano di mente, Kevin, potrebbe mai negare che il XX° secolo è stato interamente mio? Tutto quanto Kevin! Ogni cosa! Tutto mio! Sono all’apice, Kevin. È il mio tempo questo. È il nostro tempo.
John: Un brutto vizio quello di consigliare. Ma mi permetti un suggerimento? È una cosa che riguarda la tua pettinatura, puoi anche ignorarlo. Mary Anne: No, coraggio, che c’è non le piace? John: No, mi piace molto, è bellissima, e che… non ti appartiene, tu sei troppo viva per la permanente, non ti dona. Tirateli un po’ su. Fallo, vediamo che succede. Mary Anne: Adesso, qui, lei vuole che mi tiri su i capelli. John: È così tremendo? Lo farei io, ma se lo facessi, tutti quelli che ci guardano facendo finta di niente, penserebbero che stiamo scopando o qualcosa del genere. Ti prego. Mary Anne: Come vuole. John: È bello aver ragione. Sei stupenda. Ti devi tagliare i capelli. Mary Anne: Dice sul serio? John: Le spalle di una donna sono gli avamposti della sua mistica, e il suo collo, se è viva, ha tutto il mistero di una città di confine, di una terra di nessuno, è il conflitto tra la mente e il corpo. Vedi, il tuo colore naturale darebbe risalto ai tuoi occhi.
Un uomo curvo sotto il peso dell’esperienza. Le braccia dietro la schiena tradiscono la stanchezza. Un vecchio berretto sulla testa comprime i pensieri. Va’ a passo lento – sul sentiero già tracciato da altri – nel bosco dei ricordi. Sereno – sostenuto dal leggero vento alle spalle – percorre brevi momenti vissuti, importanti. Sorride – sapendo di non poterne creare molti altri – consapevolezza di fortuna. Guarda il cielo – disteso sul prato morbido – lo spostarsi irregolare delle nuvole, impossibile fermarle, spedite. Ringrazia. È stato, non sarà .
“Ciao, oggi è davvero una splendida giornata, non trovi?” “Si guarda, proprio bella.” “Cos’è successo?” “Nulla…” Iniziano così, sempre allo stesso modo le conversazioni in cui ti rendi conto di avere davanti una persona ferita, triste, afflitta. E’ un copione visto più volte, con la capacità di ripetersi ad ogni occasione. Un rituale a cui nessuno è stato permesso di non partecipare. Ed in quel momento spetta a te la decisione, lo sliding doors dei tempi moderni: far finta di nulla con un banalissimo “dai, non ci pensare, anche io ci sono passato” oppure decidere di avere davanti il viso di una persona talmente importante da sentire la necessità di capire, sapere, comprendere. Non perché si abbia la presunzione di poter risolvere il problema, di essere determinante, ma perché si è consapevoli di avere in mano la ricetta richiesta dal viso che ti guarda: togliersi quel peso sullo stomaco, vomitarlo, espellere quel corpo estraneo capace solo di rovinare l’armonia della serenità . Sai perfettamente cosa ci vuole. Una piccola spinta al coperchio traballante, in bilico sul bordo di quel vaso di Pandora, con la consapevolezza di lì a poco, di essere travolto da una valanga di neve fresca, gelida, ma pesante. Decidi di togliere quel tappo, è il punto di non ritorno, dai la spinta. All’improvviso tutto muta. Il viso precedentemente scuro diventa madido. Gli occhi bassi lasciano il posto alle pupille completamente esposte, nerissime. Le spalle chiuse su se stesse si riaprono permettendo ai polmoni di respirare più profondamente. Le labbra arcuate si trasformano nel mezzo per tirare fuori il brutto rospo incastrato in gola da troppo tempo. La rabbia, durante il racconto, diviene l’emozione preponderante, perché regala la forza per ricordare, esporre chiaramente e con la giusta nitidezza il vissuto, l’episodio, l’accaduto. Allo stesso modo, il luogo che ci circonda diventa uno spazio senza contorni, indefinito, nulla può distrarre l’attenzione dal film a cui stiamo assistendo. E il racconto si conclude molte volte con una frase precisa, netta: “…perché io sono una donna (un uomo) con le palle e non crollo.” Mio malgrado, questa affermazione mi lascia sempre titubante. Perché? Perché si sente la necessità di voler mostrare questa forza apparente? Perché si sente la necessità di sembrare imperturbabili? Come se nessuno ci potesse scalfire, toccare, ferire. Perché non si può ammettere di essere fragili, di aver bisogno di aiuto, di non riuscire a farcela? Cosa spinge l’essere umano a voler dare un’immagine distorta di se? Perché non si può essere semplicemente se stessi?
La mente è strana. In casa c’è qualche grado di troppo, non ci si può addormentare così. Apro la finestra per far entrare quel leggero venticello che ha appena la forza di scuotere le foglie più in cima degli alberi davanti a me. Questi ultimi giorni di vacanze hanno regalato un insolito silenzio. Nessun rumore artificiale. Si sente in lontananza il canto rassicurante di qualche grillo annoiato. Dovrebbe esserci la luna piena ad illuminare tutto, ma è coperta dallo strato di nuvole che ha deciso di interporsi nel mezzo. Provando a volgere lo sguardo un po’ più in basso, si nota senza fatica un lampione. Lui è sempre lì. Alto, fiero, imperscrutabile, quasi discreto. Sempre pronto a fare il suo lavoro. Non lo nota mai nessuno, ma rassicura chiunque abbia la fortuna di passare sotto di lui. Oggi invece no. È malato. La sua luce non è costante. È fioca e intermittente. Sembra voglia fare l’occhiolino ai pochi passanti, ma senza convinzione. Lo guardo, comincio a fissarlo. In quel momento la mente mi gioca uno strano scherzo. Fa’ riaffiorare come un fulmine, da chissà quale cassetto nascosto, una vecchia canzone di qualche generazione indietro. Vecchio frac di Domenico Modugno. Mi vien da sorridere e l’ascolto. Chissà se quell’uomo con il cilindro in mano è ancora in giro.