Questa poesia è stata pubblicata nella raccolta “Poesie di Strada Vol. 2” edita da Idrovolante Edizioni ed acquistabile qui.
Fanciullo colma gli occhi, attingi gioia dal mare, è pieno. Nuota immergiti cavalca l’onda naviga. Seduto sulla sabbia ti attende nuovo tempo di mestizia vestito.
Il caldo tepore estivo riscaldava l’aria circostante. L’assenza di nuvole metteva in risalto la luce brillante della luna, impegnata a provare il vestito elegante che avrebbe indossato il giorno di massimo splendore. Una miriade di piccoli frammenti brillanti, provenienti da quella luna, continuavano a tuffarsi nelle acque immobili del grande specchio d’acqua adagiato pochi metri più in basso. Il profumo dei fiori sbocciati da pochi giorni riempiva i polmoni cullando lo spirito. Al lato, una fila ordinata di alberi dalla grande chioma. Chiome ricolme di foglie vestite con un mantello verde smeraldo. Avevano un compito da svolgere: provvedere alla sicurezza del posto. Sembravano un piccolo esercito silenzioso di soldati in grande uniforme, eleganti nella loro formalità . Sotto di loro una panchina – legno marrone – ed io seduto a concedermi un momento di pace, silenzio, relax. Da quella posizione riuscivo a scorgere davanti a me un piccolo muricciolo, un trampolino sulle acque del lago. A rallegrare, rompendo il silenzio del momento, una famiglia di paperotti parlottanti. In testa mamma papera, a seguire i giovani e disciplinati figlioletti, tenerissimi nei loro goffi movimenti esercitati ancora troppo poco. Ad interrompere quella quiete, qualche minuto più tardi, due bambini. Arrivati correndo dal lato opposto al mio. Il loro traguardo sarebbe stato quel muricciolo, usato al termine della gara come panchina. Due bimbi come tanti altri. Lui: visino timido, capelli cortissimi e biondi, se non fosse stato per la giovane età avrei potuto azzardare quasi argento. Lei: faccia furbetta, lunghi capelli neri raccolti in una coda disciplinata e qualche anno in meno di lui. Seduti uno di fronte all’altro, con una gamba poggiata sulla solida pietra e l’altra penzoloni, un escamotage per non rimanere immobili. Dalla mia posizione di privilegio riuscivo a notare il loro guardarsi negli occhi, ed ascoltare da bravo impiccione la loro conversazione, una scena molto dolce. “Sei in vacanza?” “No io abito qui, in quella casa là in fondo.” “Io sono in vacanza, con mamma e papà .” “Quanti anni hai?” “Dieci.” “Perché ridi sempre?” “Perché non mi piace farmi vedere triste.” “Tu non ridi mai?” “Solo quando mi diverto.” Quei due marmocchi hanno continuato il loro scambio di battute con lo scopo di conoscersi fino all’arrivo del gruppetto dei genitori – i disturbatori -. Come sempre noi adulti abbiamo la capacità di rovinare i momenti belli dei nostri figli o dei bambini, privandoli giorno dopo giorno della loro naturalezza, semplicità o ingenuità . Ristabilita la composizione delle famiglie sono andati via, ognuno per la sua strada. Mi piace coltivare l’idea di saperli, il giorno dopo o quelli successivi, nuovamente insieme a raccontarsi le loro giovani vite, a giocare insieme, a costruire un’amicizia nata per caso in quel posto a due passi da un lago calmo e sorridente. Sono ritornato a distanza di mesi su quella panchina. Nella stagione opposta all’estate. È tutto cambiato. Il cielo è così coperto dalle nubi che la luna sembra essersi nascosta dietro una porta d’acciaio impenetrabile. Gli alberi hanno perso le foglie, non sono riusciti a non farsi colpire dai proiettili del gelo, e infreddoliti attendono l’arrivo della nuova primavera. Lo specchio d’acqua una volta piatto e sereno ora è in preda ad uno stato di turbamento, rabbia e malinconia continua. Il profumo ha abdicato il trono in favore di un olezzo irriconoscibile. La famiglia dei paperotti non si vede in giro, immagino siano abbastanza cresciuti per affrontare la vita in totale autonomia. Ma soprattutto non ci sono più quei due bambini. Non so perché ho sperato di trovarli ancora lì, a giocare fra di loro, divertirsi, a passare il tempo con spensieratezza. Chissà dove sono, forse a scuola, forse ad allenarsi in qualche sport o a guardare semplicemente i cartoni in TV, ma ognuno occupato con i propri impegni. Di certo non sono più lì.
Toh un tramonto. I tramonti piacciono a tutti. Non sono come le albe, non hanno bisogno di una sveglia anticipata o di una nottataccia per essere ammirate. Arrivano in fretta, basta aspettarle, anzi sono loro ad aspettare te. Puoi avere qualsiasi stato d’animo. Puoi essere triste: leggerai tristezza in quei colori. Puoi essere felice: leggerai felicità negli stessi colori. Ma disintossicato dagli stati d’animo ti perderai nei colori così diversi fra loro, ma uniti da una linea invisibile. Mescolati su di una tavolozza a spirale, le linee più esterne dai toni caldi ti spingono verso il centro: posto in cui i grigi trattengono il pensiero. Non puoi evitare – con lo sguardo – di saltare da un angolo all’altro di questa opera d’arte della natura frettolosa di autodistruggersi. Ecco, il problema dei tramonti è la fretta. Hanno troppa fretta di farti rimanere a bocca aperta per scomparire l’attimo successivo. Non regalano mai il tempo di abituarsi a loro, e mentre cerchi di cogliere una sfumatura, un dettaglio, hanno già cambiato tutto o sono scomparsi. Così sarai costretto ad attendere il tramonto del giorno dopo, ma sarà diverso, non sarà lo stesso e si prenderà gioco di te nuovamente. Sì è proprio la fretta di mutare a rendere il tramonto magico e mai banale. Chissà se anche gli umani avessero questo dono cosa succederebbe.
Ci sono giorni in cui non si ha nulla da fare: nessun impegno, nessuna sveglia, nessuna scadenza. Sei consapevole di poter oziare, poltrire, girarti i pollici senza subire le ire dei sensi di colpa: sempre fin troppo presenti, per fin troppi motivi. Ti è permesso usare il tempo solo per sprecarlo, buttarlo, lasciarlo andare. Oggi è un giorno di quelli, non il primo, non l’ultimo, uno dei tanti. Un alito di vento fresco muove i suoni dall’esterno della casa fin dentro le stanze. Trasporta sulle sue spalle le voci di un gruppo spensierato di amici, le risate dei bambini troppo impegnati a rincorrersi, i canti di una coppia di passerotti intenti a corteggiarsi. Io invece, me ne sto in panciolle avvolto dal torpore regalatomi dalla morbidezza del divano. I piedi poggiati su una sedia capitata lì per caso, mi regalano una posizione tale da far invidia agli antichi romani mentre consumavano i loro pasti nel triclinio. Sollevando lo sguardo davanti a me si apre una grande finestra. Un oblò sul mondo esterno. Un esterno colorato da giovani foglie nate sugli alberi da poco, dai tetti ripuliti dalla recente pioggia e sullo sfondo, aguzzando la vista, le non troppo lontane montagne. A rovinare la morbidezza di questo dipinto d’artista: un grosso palazzo. Un ingombrante rettangolo grigio fa da sfondo a buona parte della vista. Il progettista di questo mostro, nel peggior giorno della sua vita, lo ha disegnato tracciando all’interno del rettangolo tanti quadrati tutti uguali fra loro. Una miriade di balconcini abbandonati a se stessi privi di qualsiasi personalità . Tutti uguali, tutti anonimi, tutti tristi. Tutti tranne uno. Il primo in alto a sinistra è abitato costantemente da un anziano signore. Un vecchietto sorridente, sguardo attento, capelli color argento. Piegato dal peso degli anni si muove appoggiato al suo immancabile bastone di legno nero: piccoli passi lenti, ma dignitosi, sicuri, certi. Sfidando la monocromia del palazzo, ha arredato la sua loggia con quattro gerani rossi appesi al balcone, una pianta con grandi foglie verdi su un lato e una piccola seggiola di metallo marrone sull’altro. Il suo piccolo trono. Sì, perché lui è sempre lì, seduto su quel trono a guardare cosa succede al di sotto dei suoi piedi, ma è ciò che sembra con un’occhiata superficiale. Se invece si ha la fortuna di poterlo osservare più spesso, si noterà la sua presenza sempre in quella stessa posizione, con lo sguardo rivolto sempre verso la stessa direzione. Non so perché sia sempre lì, ma: voglio pensare sia lì ad attendere il ritorno della compagna di una vita andata via troppo presto; voglio pensare sia lì ad attendere il ritorno di un figlio troppo occupato con la sua quotidianità per ricordarsi di avere un padre ad attenderlo; voglio pensare sia lì ad attendere un amico che non verrà mai. Ma non voglio saperlo lì triste, perché se ha colorato il suo balconcino rompendo la malinconia del grigiore del suo palazzo non può essere triste, ma è solo un vecchietto dalla incrollabile speranza di poter aprire la porta d’ingresso e aggiungere, su quel balconcino, un’altra sedia a fianco della sua.