Ci sono giorni in cui non si ha nulla da fare: nessun impegno, nessuna sveglia, nessuna scadenza.
Sei consapevole di poter oziare, poltrire, girarti i pollici senza subire le ire dei sensi di colpa: sempre fin troppo presenti, per fin troppi motivi.
Ti è permesso usare il tempo solo per sprecarlo, buttarlo, lasciarlo andare.
Oggi è un giorno di quelli, non il primo, non l’ultimo, uno dei tanti.
Un alito di vento fresco muove i suoni dall’esterno della casa fin dentro le stanze.
Trasporta sulle sue spalle le voci di un gruppo spensierato di amici, le risate dei bambini troppo impegnati a rincorrersi, i canti di una coppia di passerotti intenti a corteggiarsi.
Io invece, me ne sto in panciolle avvolto dal torpore regalatomi dalla morbidezza del divano.
I piedi poggiati su una sedia capitata lì per caso, mi regalano una posizione tale da far invidia agli antichi romani mentre consumavano i loro pasti nel triclinio.
Sollevando lo sguardo davanti a me si apre una grande finestra.
Un oblò sul mondo esterno.
Un esterno colorato da giovani foglie nate sugli alberi da poco, dai tetti ripuliti dalla recente pioggia e sullo sfondo, aguzzando la vista, le non troppo lontane montagne.
A rovinare la morbidezza di questo dipinto d’artista: un grosso palazzo.
Un ingombrante rettangolo grigio fa da sfondo a buona parte della vista.
Il progettista di questo mostro, nel peggior giorno della sua vita, lo ha disegnato tracciando all’interno del rettangolo tanti quadrati tutti uguali fra loro.
Una miriade di balconcini abbandonati a se stessi privi di qualsiasi personalità .
Tutti uguali, tutti anonimi, tutti tristi.
Tutti tranne uno.
Il primo in alto a sinistra è abitato costantemente da un anziano signore.
Un vecchietto sorridente, sguardo attento, capelli color argento.
Piegato dal peso degli anni si muove appoggiato al suo immancabile bastone di legno nero: piccoli passi lenti, ma dignitosi, sicuri, certi.
Sfidando la monocromia del palazzo, ha arredato la sua loggia con quattro gerani rossi appesi al balcone, una pianta con grandi foglie verdi su un lato e una piccola seggiola di metallo marrone sull’altro.
Il suo piccolo trono.
Sì, perché lui è sempre lì, seduto su quel trono a guardare cosa succede al di sotto dei suoi piedi, ma è ciò che sembra con un’occhiata superficiale.
Se invece si ha la fortuna di poterlo osservare più spesso, si noterà la sua presenza sempre in quella stessa posizione, con lo sguardo rivolto sempre verso la stessa direzione.
Non so perché sia sempre lì, ma:
voglio pensare sia lì ad attendere il ritorno della compagna di una vita andata via troppo presto;
voglio pensare sia lì ad attendere il ritorno di un figlio troppo occupato con la sua quotidianità per ricordarsi di avere un padre ad attenderlo;
voglio pensare sia lì ad attendere un amico che non verrà mai.
Ma non voglio saperlo lì triste, perché se ha colorato il suo balconcino rompendo la malinconia del grigiore del suo palazzo non può essere triste, ma è solo un vecchietto dalla incrollabile speranza di poter aprire la porta d’ingresso e aggiungere, su quel balconcino, un’altra sedia a fianco della sua.
Velocità del tempo
Ci sono momenti in cui si è costretti ad attendere, aspettare.
Dare al tempo il tempo necessario perché scorra, proceda, vada nella sua direzione.
Non fa sconti a nessuno, il movimento continuo e regolare delle lancette è identico per tutti.
Potenti e ultimi non possono sottrarsi alla sua ingerenza continua, ma questo regala un finto senso di giustizia.
Si erge come un giudice sul suo grande trono, logorato dall’estrema usura, brandendo un bastone nella mano destra e con alle spalle il motto:
“Tutto si inchinerà al mio cospetto”.
Giudice capace di comminare una sola pena: la fine di se stesso per gli altri.
Mai un giudizio diverso, mai una seconda possibilità , mai un errore.
Ma prima di essere inesorabilmente giudicati, lo sentiamo scorrere sulla nostra pelle a velocità diverse.
Siamo incapaci di farci trasportare sul suo dorso viaggiando sempre alla stessa velocità .
Sono sensazioni.
Sensazioni sempre contrarie alla volontà .
Nel momento in cui vogliamo passi velocemente, beffardo, si prende gioco di noi rallentando il suo vagare, al contrario quando desideriamo rallenti farà di tutto per spostarsi il più velocemente possibile.
E questo atteggiamento a volte fa arrabbiare, preoccupare, annoiare, ma impotenti possiamo solo subirlo.
E’ strano rintracciare, vedere, osservare questi comportamenti nei perfetti sconosciuti ritrovatisi insieme a noi per caso.
Eccoli.
A destra, un uomo di mezza età , dai capelli grigi, il viso fin troppo solcato da rughe abbondantemente premature e profonde occhiaie scure, mette in evidenza una vita fatta da tanti, troppi momenti difficili.
Ed è li a picchiettare l’indice sulla solida superficie su cui la mano si poggia.
Per lui il tempo vagabonda senza meta e senza preoccuparsi troppo di accelerare.
Lui lo vorrebbe più spedito, solerte, ma non sarà accontentato.
A sinistra, una bimba dai lunghissimi capelli biondi, occhi color cielo, un sorriso contagioso, corre, anzi no, scimmiotta una corsa con le braccia aperte verso il papà : l’aspetta un balzo in aria tale da far impallidire il decollo di qualsiasi aereo.
Per lei, quel momento, che forse non ricorderà neanche, sta scorrendo fin troppo velocemente e sono certo vorrebbe non finisse mai.
Io nel mezzo a confrontare questi due mondi dal tempo identico, ma vissuti come ai lati opposti di uno stesso universo.
Io nel mezzo a pensare: come si fa a non sprecarlo, non bruciarlo?
Non ho una risposta.
Posso solo vivere il tempo alla sua velocità , come tutti, d’altronde.
Primavera
L’inverno è stato messo alle strette.
Spinto nel suo angolo subisce, incapace di difendersi, i colpi bassi dei primi caldi portati dal sole.
E’ primavera.
Adesso è lei a farla da padrona e non intende cedere ai ricatti di qualche pioggia invadente, ma sporadica.
Tutto viene rianimato.
Le montagne vengono inondate da una secchiata di vernice verde scuro perdendo il consueto mantello grigio.
Le piante rinascono timide e piene di piccoli germogli rigogliosi.
I primi fili d’erba si affacciano alla nuova vita rompendo il pesante strato di terra che gli ha fatto da scudo e protetti durante il freddo appena lasciato alle spalle.
Sono coraggiosi loro, non temono di essere calpestati e se lo fossero raddrizzeranno la schiena più forti di prima.
Non si fanno abbattere da un inconveniente così banale e prevedibile.
L’insolenza di una comitiva di pettirossi è imbarazzante, non si preoccupano dei vicini animali intontiti dal prematuro risveglio, dopo essere stati coccolati dal letargo invernale.
Devono, anche loro ad ogni costo, partecipare alla festa della nuova vita.
Sentono la necessità di cantare, urlare, cinguettare, rivendicare il loro diritto di esserci e farsi riconoscere.
Riemergono anche gli uomini.
Cercano, nel rinato tepore, la forza di abbandonare i luoghi sicuri in cui sono stati immersi nei mesi passati.
Una bolla di sapone fatta scoppiare non appena è stata di troppo.
Rinvigoriti dalla luce hanno ripreso ad animare parchi, boschi, prati, laghi e qualsiasi altro posto privo di un tetto, una copertura, qualcosa capace di oscurare la visuale sopra la loro testa.
La necessità ora è di fare il pieno di caldo, riempire gli occhi con i colori della vitalità , tuffarsi nel verde per riemergere nell’azzurro.
I pittori coloreranno i loro quadri con colori caldi dando ai loro ritratti la forza di sollevarsi dalla tela e prendere vita.
I musicisti riempiranno lo spartito di note così vigorose che sembreranno voler ballare insieme alle evoluzioni praticate dai ballerini.
I poeti scriveranno versi non più inneggianti alla tristezza, ma alla felicità .
Si pensa al futuro.
Si fanno progetti.
Si è ottimisti.
Si cerca di emulare i fili di erba, quelli incapaci di farsi abbattere dalle piccole avversità che inevitabilmente arriveranno, ci investiranno, ma verranno scrollati di dosso con un leggero movimento delle spalle.
Tutto è più facile, ottenibile, a portata di mano, basterà chinarsi in avanti per afferrarlo.
Finalmente, ci si potrà tuffare nella piscina colma di profumi con la corsia in direzione del nuovo periodo di buio pesto, ma nel frattempo potremo godere della bellezza avuta sotto il naso in ogni momento.
Bellezza nascosta solo dall’incapacità di riuscire a volgere lo sguardo oltre il gelo.
Dopo lo sconforto dovuto ai disegni fatti dai pastelli grigi del freddo sulle tele del nostro quotidiano, avremo la sensazione di poter tutto, basterà volerlo prendere.
Prendiamolo.
Pregiudizio
Non possiamo conoscere tutti, fortunatamente.
Durante il lungo cammino, purtroppo breve per alcuni sfortunati, percorso sul mucchio di terra calpestato ogni giorno, ci imbattiamo in persone nuove.
Sconosciuti fino a quel momento.
Molti continueranno ad esserlo.
Una piccola parte, al contrario, condividerà con noi un pezzo di strada, qualche passo o un lungo tragitto.
Alcuni ci guarderanno da lontano.
Altri ci accompagneranno per mano.
Questi ultimi, forse, saranno persone scelte da noi.
Ma prima di scegliere, di condividere, saremo costretti a passare dal solito rituale.
Una stretta di mano, energica o fiacca.
Un sorriso, il più delle volte finto e di circostanza.
Un avventato scambio di nomi, in cui le voci sovrapposte e quasi mai comprese fanno da sfondo ad uno sconosciuto, passato dalla parte opposta della barricata.
Ed è in quel momento, in quei pochi secondi che si forma dentro di noi un giudizio sommario.
In quel preciso istante cataloghiamo il nostro nuovo vicino.
Gli appiccichiamo in fronte un adesivo con appuntato un aggettivo che lo descriverà in quel modo, quasi per sempre.
Simpatico, antipatico, carino, viscido, interessante… e avanti così con tutti gli aggettivi possibili.
Raramente strapperemo quell’adesivo per sostituirlo con quello reale o meglio, quello più appropriato.
Non ci sono motivi precisi per farlo, lo facciamo e basta.
Ci affidiamo a questo strano senso.
Il sesto.
Confidiamo in lui e nella sua innata capacità di non commettere errori.
Ci mette in allerta, così come ci dice sottovoce “non sembra pericoloso”.
C’è chi si fida ciecamente, chi cerca in tutti i modi di zittirlo, non considerarlo, ignorarlo, ma sarà sempre lì a sussurrarci “te l’avevo detto”.
Ha sempre ragione lui.
Ma l’errore è dietro l’angolo, anche per chi non sbaglia mai.
Anzi il tonfo sarà più fragoroso, rumoroso, duro e farà più male.
Perché quando l’adesivo è sfacciatamente sbagliato e la fiducia riposta nel sesto senso è marcata, la ricetta per la tempesta perfetta è servita.
Ti privi della possibilità di farti influenzare da qualcuno per cui ne sarebbe valsa la pena.
Ti privi della possibilità di imparare da quel qualcuno.
Ti privi della fortuna di crescere con chi è migliore di te.
Ma la batosta la prendi e la senti quando ormai quel qualcuno è di spalle e sta andando via per la sua, di strada.
I figli
Esserci
Premessa:
questa foto è stata scatta per la mostra “Autofocus” ideata e prodotta dalla fotografa Alice Asinari ed è per questo di sua proprietà .
Questo è il racconto di come mi sono trovato invischiato in questa situazione:
Amici, una tarda domenica sera, mentre sfuggono dal freddo.
Qualche seggiola, un tavolino e poggiati sopra, alcuni bicchieri gelati.
La schiuma bianca traboccante aggredisce il vicino e indifeso liquido incolore analcolico.
La debole luce riscalda l’ambiente tenuto volutamente privo di passionalità .
Immersi tra gli affluenti delle parole, le conversazioni, i racconti, i ricordi.
Dalla faretra colma di frecce, vengono prelevate e scagliate idee nel vuoto.
Tra di esse, una colpisce il centro del bersaglio.
Involontariamente, ma lo fa.
E così ti ritrovi ad essere tu, per una volta, il cerchio rosso al centro del bersaglio.
Colpito e affondato da una di quelle frecce.
Perché quando un amico, un’amica in questo caso, racconta involontariamente di non essere riuscita a risolvere un piccolo intoppo, non puoi fare a meno di offrire un appiglio a cui aggrapparsi.
E da tutto ciò ti ritrovi a far parte di un’idea prima, di un progetto dopo.
Idea voluta, curata e prodotta dalla momentanea proprietaria di uno di quei bicchieri.
Idea che mi ha permesso, insieme a tanti altri ragazzi, di essere un attore diretto dalla regista di tutto.
Idea che alla fine ha dato come risultato questa foto.
E quella che doveva essere una soluzione ad un intoppo, si è trasformata in una nuova esperienza per me.
Gli errori
Dormire, l’atto quasi più naturale del mondo, si è trasformato in una sfida degna della guerra del Peloponneso.
Il continuo esplorare ogni possibile angolo del letto, nel tentativo di scoprire chissà quali terre, emerse nella brevissima notte precedente, non ha sortito nessun esito.
La piccola macchina del caffè, tanto giovane da offrire oro nero di pessimo gusto, ha avuto il buon senso di non commentare ciò che aveva davanti.
I silenzi del mancato mattino, sono interrotti dall’avvio di tante giornate che stentano, loro malgrado, a partire.
Nevica.
Il freddo ha avvolto tutto ciò possa essere capitato, anche solo per caso, sotto la sua mano.
Una distesa di ghiaccio bianco, fa da regia ad un film comico strabordante di goffi movimenti innaturali.
Il cambio di programma improvviso, mette a dura prova la ritualità dei momenti scanditi da una normalità ormai venuta meno.
È come guidare su una strada piena di curve, tentando di andare sempre dritto.
Puoi mentire a te stesso.
Puoi tentare di ignorare tutte quelle curve, ma prima o poi dovrai cedere e seguire la direzione scelta da qualcun altro, da chi in precedenza ha deciso che in quel determinato punto ci debba essere una svolta, un tornante, un tunnel.
Procedi a tentoni tra lo scandire del tempo che cinico, si beffa di te.
Rallenta arbitrariamente il suo corso, nel momento in cui tutto precipita, per riprendere beffardo a correre quando vorresti goderti quel microscopico momento di vittoria.
Speri sia solo il breve ossimoro della più bella giornata della tua vita.
Non oggi.
Forse domani.
Oggi ci sono ancora tanti piccoli gesti sbagliati da compiere.
Oggi ci sono ancora tante piccole cose sbagliate da dire.
Oggi ci sono ancora tanti piccoli errori da commettere.
In fondo il buongiorno si vede dal mattino.
No?
I nostri malesseri
Un giorno qualsiasi, di un mese qualsiasi, di un anno qualsiasi.
Un parco, anche lui qualsiasi.
Lo scampolo di sole caldo, nel primo pomeriggio di un inverno anomalo, ha risvegliato nei bambini la voglia di trincerarsi in un parco.
Urlano, giocano, si inseguono, si divertono.
Non hanno fronzoli loro, esprimono i propri sentimenti in totale spensieratezza.
I cuccioli di uomo, gli unici capaci di quella forza interiore e indomabile, sono riusciti nell’improbabile compito di far riemergere gli adulti dal torpore delle proprie case.
Rintanati nelle comodità e protetti da milioni di alibi con i quali giustifichiamo l’ozio quotidiano, siamo solitamente incapaci di sollevare la testa per guardare cosa succede intorno a noi.
Non oggi, non in questo minuscolo angolo di terra.
Le mamme parlottano tra loro.
I nonni sorvegliano con aria greve i futuri eredi.
I papà , troppo assuefatti dalla tecnologia, ignorano tutto ciò possa distrarli, adducendo, come motivazione, la necessità di dare ai pargoli la loro apparente libertà .
Sedute sulla panchina più esterna di questa area protetta, due amiche.
Sono totalmente ricoperte dall’impalpabile calore del giorno di perielio.
Parlano.
Si confidano.
Servono su un piatto d’argento le proprie emozioni, i sentimenti, gli stati d’animo.
Lo facciamo tutti, chi più, chi meno.
Lo fanno queste due donne, o meglio, lo fa una delle due.
È evidente, dall’aria corrucciata del viso e dalla forza che mette nello stringersi su se stessa, ad essere lei quella bisognosa di liberarsi dai demoni aggrappati alle piccole spalle.
L’altra annuisce, segue con attenzione l’immensa mole di parole provenire dalla direzione opposta.
Di tanto in tanto, risponde, espone il suo punto di vista, cambia involontariamente le espressioni del viso.
Sembra una partita a scacchi truccata, dove uno dei due avversari fa di tutto per far vincere l’avversario.
Pur essendo lontano riesco a cogliere quella dinamica vista e provata da tutti noi milioni di volte.
Nel momento in cui qualcosa ci opprime, sentiamo la necessità di liberarcene e lo facciamo parlando, o almeno dovremmo farlo.
Perché tutto ruota sulla volontà e il coraggio di provarci, coraggio che il più delle volte viene meno.
Usiamo sotterfugi.
Ci facciamo vedere tristi per mettere alla prova l’empatia di chi abbiamo di fronte, ma abbandoniamo la presa mentre siamo appesi sul ciglio di un burrone e ci viene offerta una mano come appiglio.
Il timore di essere quelli sbagliati, ridicoli, inopportuni frena ogni possibilità di confronto.
L’eterna lotta tra il riuscire a risolvere autonomamente i propri malesseri, ed il riconoscere di poterlo fare solo dopo averli vomitati in faccia a qualcuno che abbia voglia di subirli, riempie le giornate di tutti noi.
Chissà perché sentiamo la necessità di dimostrare a noi stessi di essere così autonomi, per accorgerci dopo, di esserne totalmente incapaci.
Perché riusciamo a complicare tutto e non facciamo come i bambini?
Dovremmo imparare da loro.
Anzi no, dovremmo recuperare la memoria perduta degli anni in cui eravamo noi quei bambini.
Io o tu?
Domenica pomeriggio.
È inverno, fa freddo.
Il freddo, oltre a rallentarne i movimenti, rallenta anche i pensieri, le idee, le voglie.
Smaltita l’euforia del sabato sera, si decide di trascorrere questo tempo (che ci traghetta dall’ora del riposo all’ora degli impegni lavorativi) all’interno del guscio protettivo di casa.
Anche io ho preso questa decisione.
Annoiarsi, a volte, è l’unico modo per riposare davvero.
Il sole è quasi tramontato.
Dalle finestre fa capolino un meraviglioso caleidoscopio di riflessi colorati.
Gli ultimi raggi della giornata, infranti sulle piccole nuvole sparse senza alcun senso nel cielo, regalano uno dei tanti dipinti offerti incondizionatamente dalla natura.
Tutto all’apparenza sembra perfetto, quando una telefonata rompe l’idillio.
“Michi, ho bisogno di parlare, vieni.”
Non una domanda, lo raggiungo.
Arrivato, lo vedo seduto nell’ultimo tavolo a sinistra di questa piccola sala circondata da grandi vetrate.
I divanetti in pelle, verde scuro, vuoti, lo isolano dai pochi avventori presenti.
Le luci calde sulle pareti, colorano l’ambiente con un insolito maquillage vintage.
In mano un bicchiere, vino, rosso.
Il viso triste, cupo, assorto.
Gli occhi bassi, a fissare il liquido innanzi a lui, tradiscono i suoi pensieri nascosti.
Mi siedo di fronte, lo fisso.
Un fiume in piena mi travolge.
Una valanga disordinata di parole, scaccia violentemente i miei pensieri frivoli del momento.
Il racconto, procedendo a briglia sciolta, mi permette di comprendere l’accaduto, ma soprattutto mi permette di comprendere cosa lo tormenta.
Una frase su tutte lo riassume.
Per cercare di non mentire, ha deluso nuovamente una persona importante.
Ecco, tutto ruota intorno a questo.
Un duopolio in cui tutti ci siamo trovati almeno una volta.
Mentire o deludere?
Scegliere il bene interiore proprio o quello dell’altro?
Perché alla fine la scelta ricade sempre sulla stessa domanda.
Decidere chi è più importante in quel momento:
io o tu?
Il peggio di te
Sono giornate gelide.
Monsieur inverno si è totalmente e incondizionatamente impossessato di ogni angolo.
Ha steso la sua immensa coltre, incurante di chi o cosa potesse essere schiacciato dalle sue pesanti mani.
Si stenta a riconoscere quel mondo estivo, in cui i giorni erano pieni di vitalità , forza e voglia di vivere, alimentati dall’incessante opera del Dio Apollo.
Anche lui ha preso la sua decisione: è arrivato il momento di impegnarsi meno.
Tutto è cupo, grigio, nascosto, quasi furtivo.
La natura ha perso i suoi colori.
Gli uomini si nascondono dietro i loro avvolgenti e caldi vestiti, ma i loro volti trasudano freddo.
Condividono con l’inverno lo stesso mancato tepore.
Siamo lì, con gli occhi bassi, preoccupati di poter riscaldare con un sorriso un malcapitato sconosciuto incrociato per caso.
Anche la coppia di fidanzati a pochi metri da me ha la stessa espressione.
Si tengono per mano, ma i loro visi sono distanti.
Sono vicini con il corpo, ma la loro anima non si sovrappone.
Non più.
I loro occhi descrivono, come un libro aperto, ogni pensiero.
Sono tristi, arrabbiati, lontani.
L’alchimia di una volta svanita.
I giorni felici un lontano ricordo.
Il piacere di essere insieme una inevitabile ipocrisia.
Parlano a voce bassa.
Non vogliono far trapelare i motivi del loro dissentire.
Ma i movimenti del corpo non mentono: sono bruschi, stizziti quasi innaturali.
Litigano.
Mi sembra di essere affacciato ad una finestra.
Vederli, ricorda un incontro di box in cui i due pugili si scambiano colpi ben assestati.
All’improvviso lei lascia la mano di lui.
L’allontana violentemente.
Il suo viso assume i connotati tipici della rabbia.
Gli sussurra qualcosa nell’orecchio.
Anche il viso del giovane ragazzo cambia, gli occhi si abbassano, le labbra si inarcano disegnando una piccola parabola.
Non replica.
È come se un pugno lo avesse colpito all’improvviso, non si aspettava quel colpo andato a segno.
La battaglia è terminata.
Può solo andare via, abbandonare lo scontro.
Ed è in quel momento che riesco ad ascoltare la sua ultima frase:
“Hai dato il peggio di te”.
Va via.
Riecheggia ancora quella frase dentro di me.
“Hai dato il peggio di te”.
Se ci pensiamo, quel ragazzo ha ragione.
Siamo sempre pronti a dare il peggio di noi con le persone a cui vogliamo bene.
Siamo sempre pronti a far prevalere i nostri egoismi con chi sappiamo ci perdonerà tutto.
Siamo fin troppo bravi a vincere battaglie contro chi non vorrà mai battersi con noi.