Ci sono momenti in cui si è costretti ad attendere, aspettare.
Dare al tempo il tempo necessario perché scorra, proceda, vada nella sua direzione.
Non fa sconti a nessuno, il movimento continuo e regolare delle lancette è identico per tutti.
Potenti e ultimi non possono sottrarsi alla sua ingerenza continua, ma questo regala un finto senso di giustizia.
Si erge come un giudice sul suo grande trono, logorato dall’estrema usura, brandendo un bastone nella mano destra e con alle spalle il motto:
“Tutto si inchinerà al mio cospetto”.
Giudice capace di comminare una sola pena: la fine di se stesso per gli altri.
Mai un giudizio diverso, mai una seconda possibilità , mai un errore.
Ma prima di essere inesorabilmente giudicati, lo sentiamo scorrere sulla nostra pelle a velocità diverse.
Siamo incapaci di farci trasportare sul suo dorso viaggiando sempre alla stessa velocità .
Sono sensazioni.
Sensazioni sempre contrarie alla volontà .
Nel momento in cui vogliamo passi velocemente, beffardo, si prende gioco di noi rallentando il suo vagare, al contrario quando desideriamo rallenti farà di tutto per spostarsi il più velocemente possibile.
E questo atteggiamento a volte fa arrabbiare, preoccupare, annoiare, ma impotenti possiamo solo subirlo.
E’ strano rintracciare, vedere, osservare questi comportamenti nei perfetti sconosciuti ritrovatisi insieme a noi per caso.
Eccoli.
A destra, un uomo di mezza età , dai capelli grigi, il viso fin troppo solcato da rughe abbondantemente premature e profonde occhiaie scure, mette in evidenza una vita fatta da tanti, troppi momenti difficili.
Ed è li a picchiettare l’indice sulla solida superficie su cui la mano si poggia.
Per lui il tempo vagabonda senza meta e senza preoccuparsi troppo di accelerare.
Lui lo vorrebbe più spedito, solerte, ma non sarà accontentato.
A sinistra, una bimba dai lunghissimi capelli biondi, occhi color cielo, un sorriso contagioso, corre, anzi no, scimmiotta una corsa con le braccia aperte verso il papà : l’aspetta un balzo in aria tale da far impallidire il decollo di qualsiasi aereo.
Per lei, quel momento, che forse non ricorderà neanche, sta scorrendo fin troppo velocemente e sono certo vorrebbe non finisse mai.
Io nel mezzo a confrontare questi due mondi dal tempo identico, ma vissuti come ai lati opposti di uno stesso universo.
Io nel mezzo a pensare: come si fa a non sprecarlo, non bruciarlo?
Non ho una risposta.
Posso solo vivere il tempo alla sua velocità , come tutti, d’altronde.
Donna con le palle
“Ciao, oggi è davvero una splendida giornata, non trovi?”
“Si guarda, proprio bella.”
“Cos’è successo?”
“Nulla…”
Iniziano così, sempre allo stesso modo le conversazioni in cui ti rendi conto di avere davanti una persona ferita, triste, afflitta.
E’ un copione visto più volte, con la capacità di ripetersi ad ogni occasione.
Un rituale a cui nessuno è stato permesso di non partecipare.
Ed in quel momento spetta a te la decisione, lo sliding doors dei tempi moderni:
far finta di nulla con un banalissimo “dai, non ci pensare, anche io ci sono passato” oppure decidere di avere davanti il viso di una persona talmente importante da sentire la necessità di capire, sapere, comprendere.
Non perché si abbia la presunzione di poter risolvere il problema, di essere determinante, ma perché si è consapevoli di avere in mano la ricetta richiesta dal viso che ti guarda:
togliersi quel peso sullo stomaco, vomitarlo, espellere quel corpo estraneo capace solo di rovinare l’armonia della serenità .
Sai perfettamente cosa ci vuole.
Una piccola spinta al coperchio traballante, in bilico sul bordo di quel vaso di Pandora, con la consapevolezza di lì a poco, di essere travolto da una valanga di neve fresca, gelida, ma pesante.
Decidi di togliere quel tappo, è il punto di non ritorno, dai la spinta.
All’improvviso tutto muta.
Il viso precedentemente scuro diventa madido.
Gli occhi bassi lasciano il posto alle pupille completamente esposte, nerissime.
Le spalle chiuse su se stesse si riaprono permettendo ai polmoni di respirare più profondamente.
Le labbra arcuate si trasformano nel mezzo per tirare fuori il brutto rospo incastrato in gola da troppo tempo.
La rabbia, durante il racconto, diviene l’emozione preponderante, perché regala la forza per ricordare, esporre chiaramente e con la giusta nitidezza il vissuto, l’episodio, l’accaduto.
Allo stesso modo, il luogo che ci circonda diventa uno spazio senza contorni, indefinito, nulla può distrarre l’attenzione dal film a cui stiamo assistendo.
E il racconto si conclude molte volte con una frase precisa, netta:
“…perché io sono una donna (un uomo) con le palle e non crollo.”
Mio malgrado, questa affermazione mi lascia sempre titubante.
Perché?
Perché si sente la necessità di voler mostrare questa forza apparente?
Perché si sente la necessità di sembrare imperturbabili?
Come se nessuno ci potesse scalfire, toccare, ferire.
Perché non si può ammettere di essere fragili, di aver bisogno di aiuto, di non riuscire a farcela?
Cosa spinge l’essere umano a voler dare un’immagine distorta di se?
Perché non si può essere semplicemente se stessi?