Dall’interno della stanza, appena illuminata dai pochi raggi di sole rimasti, ammira, seduta sulla vecchia poltrona, le ombre dei rami spogli, riflessi sulla terra riscaldata dall’ultima giornata autunnale. La mente, libera, danza sulle punte accompagnata dalle note librate in aria – suonate dal pianoforte dei ricordi. – Il corpo, prigioniero di se stesso, guarda l’anima fuggita oltre il vetro. Siede sul davanzale, con le braccia attorno alle gambe. Attende. Un altro giorno è passato. Un altro tramonto sta per lasciare il posto ad una nuova oscurità . Un altro pezzo di speranza ha abbandonato il tavolo, apparecchiato per due, rimasto anche oggi vuoto.
Questo racconto è stato analizzato dalla scrittrice Maggie van der Toorn che lo ha valutato così:
Nel sogno ricordo di aver sognato la stessa cosa la notte prima e molte altre notti degli ultimi anni, e seppe che l’immagine gli si era cancellata dalla memoria quando si era svegliato, perché quel sogno ricorrente aveva la virtù di non poter essere ricordato se non dentro il sogno stesso.
Cent’anni di solitudine
Così aveva finito per pensare a lui come non si era mai immaginata che si potesse pensare a qualcuno, presagendolo dove non era, desiderandolo dove non poteva essere, svegliandosi d’improvviso con la sensazione fisica che lui la contemplasse nel buio mentre dormiva.
L’amore ai tempi del colera
Con lei Florentino Ariza aveva imparato quello che aveva già sofferto parecchie volte senza saperlo: che si può essere innamorati di diverse persone per volta, e di tutte con lo stesso dolore, senza tradirne nessuna. Solitario tra la folla del molo, aveva detto fra sè in un accesso di rabbia: “il cuore ha più stanze di un casino.”
L’amore ai tempi del colera
Se sapessi che questi sono gli ultimi minuti che ti vedo, direi “ti amo” e non darei scioccamente per scontato che già lo sai.
Se cerchi un tesoro devi cercarlo nei posti meno visibili, non cercarlo nelle parole della gente, troveresti solo vento. Cercalo in fondo all’anima di chi sa parlare con soli silenzi.
Dovrei chiedere scusa a me stessa per aver creduto sempre di non essere mai abbastanza.
Abbiamo fame di tenerezza, in un mondo dove tutto abbonda siamo poveri di questo sentimento che è come una carezza per il nostro cuore. Abbiamo bisogno di questi piccoli gesti che ci fanno stare bene… la tenerezza è un amore disinteressato e generoso, che non chiede nient’altro che essere compreso e apprezzato
A volte il silenzio dice quello che il tuo cuore non avrebbe mai il coraggio di dire.
Cerca di accettarti così come sei. Non cambiare per piacere agli altri. Chi ti ama accarezzerà le tue insicurezze. Chi vorrà starti accanto si accoccolerà alle pieghe della tua anima. Sii te stesso sempre. Fatti un dono vero resta come sei.
Io sono con te in ogni maledetto istante che ci vuole dividere e non ci riesce.
Amare è rischiare di essere rifiutati. Vivere è rischiare di morire. Sperare è rischiare di essere delusi. Provare è rischiare di fallire. Rischiare è una necessità. Solo chi osa rischiare è veramente libero.
Sono uno dei tanti fortunati ad avere conosciuto il quartetto dei miei nonni. Persone private dell’uso intensivo della tecnologia così come la conosciamo adesso. Non avevano idea di cosa fosse uno smartphone, un social, un tablet e a malapena hanno sentito parlare di computer. Loro sono nati e vissuti in un periodo fatto di lavoro manuale, famiglia e preghiera. Cresciuti con l’idea di non dover gettare nulla – tutto doveva essere riparato -, fosse stato un oggetto, uno stato d’animo, un rapporto. Non firmavano contratti per qualsiasi cosa, e se ci fosse stata la necessità di suggellare un accordo, bastava una stretta di mano seguita dal classico: “hai la mia parola”. Quel gesto, quel rituale assumeva un valore maggiore rispetto alle più disparate firme autografe fatte in presenza del notaio. Avete presente il notaio? L’uomo elegante ed austero, seduto comodo sulla sua poltrona di pelle nera, con i gomiti poggiati sui braccioli. Protetto dalla sua scrivania di legno massiccio intarsiato e circondato da librerie colme di tomi impolverati. Tutto costruito, studiato e immaginato per dare l’impressione di maestosità e ufficialità . Scusate la digressione, ma immaginare il notaio è stato per me un passaggio obbligato. Torniamo a noi, alla stretta di mano ed al: “hai la mia parola”. Mantenere quell’impegno era un obbligo, conversazioni del tipo: “…non può essere fatto perché mio padre aveva dato la sua parola prima di morire”, non erano così insolite. Poi qualcosa è cambiato. Siamo arrivati noi o la generazione prima della nostra. Il lavoro duro e manuale lo abbiamo sostituito con gli anni passati sui banchi di scuola, con lo studio, il progresso, la comodità e tutto ciò che oggi conosciamo e usiamo. Abbiamo, allo stesso modo, cominciato a non fidarci degli altri, abbiamo sentito la necessità di riesumare e usare il vecchio motto: “verba volant scripta manent”. La parola, la stretta di mano, una volta tanto vincolante, oggi ha perso il valore avuto qualche lustro fa. Per dare alla parola una certezza di durata nel tempo è necessario firmare. Ahimè ormai se non è controfirmata dal notaio nessuna affermazione, promessa o richiesta di fiducia ha alcun valore. Valore e tempo, un binomio indissolubile, due fratelli siamesi, uno influenza l’altro, se manca uno l’altro cessa di esistere, automaticamente. Oggi tutto ha un tempo prestabilito. Tutto ha una scadenza. Tutto ha un valore limitato nel tempo. Niente è più duraturo. Le affermazioni: “hai la mia parola, te lo prometto, fidati di me”, una volta vincolanti, ora si accasciano al suolo esanimi dopo poche ore. Parliamo, affermiamo, promettiamo, chiediamo fiducia con la stessa superficialità con le quali si pubblicano le storie sui social – a tempo prestabilito. – Scadute le ventiquattro ore perdono di valore, vengono dimenticate, cancellate, buttate nel secchio dell’immondizia. La parola data, la stretta di mano pietra miliare dei rapporti tra le persone per decenni, ora è stata trasformata in un pugno di sabbia nelle mani di un bambino, se si è fortunati al massimo rimarrà qualche granello tra le pieghe della mano. Ci siamo trasformati nel popolo delle parole gettate al vento, delle promesse lanciate tra i bufali in corsa, della fiducia usata come modo di dire e non per il valore che dovrebbe avere. Parole. Non ne abbiamo mai usate così tante, ma ora non hanno peso, solidità , sicurezza. Parole. Oggi sono più leggere del vento e dall’aspetto e consistenza di una nuvola di fumo. Parole. Si ha a disposizione solo quell’attimo per vederle sfumare, scomparire, dissolvere, dimenticare. Parole. Consumate le prime sono immediatamente pronte le altre, ma non potremo afferrarle e stringerle come si fa con un abbraccio dato ad una persona importante, perché saranno già morte.
La comodità di non chiudere occhio è quella di dare spazio ai pensieri in totale libertà . Potranno essere pensieri frivoli, delicati, sconci, profondi, ma saranno comunque pensieri liberi e il più delle volte ingombranti. Hanno un difetto i pensieri: sono inconsistenti, immateriali, circoscritti. Sono racchiusi nel loro bel recinto d’oro rinforzato, galoppano, saltano, compiono mille evoluzioni, ma rimangono chiusi lì incapaci di oltrepassare la linea che li separa dalla realtà . Hanno anche dei pregi, ti permettono di accrescere l’ego: “domattina farò questo e quello…”; ti permettono di trovare il coraggio che normalmente manca: “domattina gliene dirò quattro…”; ti permettono di pianificare strategie da far invidia ai più grandi Generali: “domattina se succede ciò risponderò con questa azione inaspettata da tutti…”; ma ahimè essendo pensieri, solo pensieri, perderanno di valore con le prime luci dell’alba. Un po’ come i sogni, aperti gli occhi ci si dimentica il più delle volte di aver sognato, di aver vissuto una seconda vita mentre le palpebre chiuse, al buio, ci proteggevano dalla realtà . Forse sogni e pensieri fanno parte della stessa famiglia. Forse sono addirittura fratello e sorella. E forse non sono neanche soli, perché potrebbero avere un altro fratello o sorella: le parole. In effetti nel momento in cui le parole si comportano come i pensieri o come i sogni – svanire al mattino, perdere di valore a fine giornata, dimenticarle – non sono altro che sogni o pensieri. Un modo diverso di rappresentare la stessa identica cosa: inconsistenza, immaterialità . Sono sinonimi, fratelli, figli degli stessi genitori. Eh già . Ma se pensieri e sogni rimangono all’interno della nostra testa e non possono provocare danni, le parole quando investono gli altri ci identificano, ci disegnano, ci collocano all’interno della società come soggetti affidabili o meno. Se affidiamo le parole a qualcuno come fossero dei pegni senza riscattarle con i fatti, avranno perso le parole di valore e noi di credibilità . Le parole, se rimangono vuote, non sono altro che foglie secche portate dal vento, puoi vederle, sentirle, ma se cerchi di acciuffarle ti sfuggiranno dalle mani o si ridurranno in mille pezzi lasciandoti solo l’amarezza di averci provato e l’illusione di averci creduto. Perché alla fine potremo pensare, sognare, raccontare, ma prima o poi dovremo vivere, e se viviamo in un modo raccontandolo in un altro, beh, signori miei avremo sbagliato tutto.
Un uomo curvo sotto il peso dell’esperienza. Le braccia dietro la schiena tradiscono la stanchezza. Un vecchio berretto sulla testa comprime i pensieri. Va’ a passo lento – sul sentiero già tracciato da altri – nel bosco dei ricordi. Sereno – sostenuto dal leggero vento alle spalle – percorre brevi momenti vissuti, importanti. Sorride – sapendo di non poterne creare molti altri – consapevolezza di fortuna. Guarda il cielo – disteso sul prato morbido – lo spostarsi irregolare delle nuvole, impossibile fermarle, spedite. Ringrazia. È stato, non sarà .