L’autunno

Ventitré settembre duemiladiciannove, nove e cinquanta, lunedì mattina.
Gli astronomi dicono sia stato il momento preciso in cui l’equinozio d’autunno è arrivato ed ha scalzato l’estate.
Come un treno merci in corsa colmo all’inverosimile l’ha colpita frontalmente, l’estate ormai morente, e l’ha scaraventata lontano.
Persa in chissà  quale discarica o profondo pozzo.
Senza alcun rispetto, privo di un minimo di delicatezza, cortesia, incurante di qualsiasi norma sulle buone maniere, l’autunno ha preso il posto dell’estate in barba a tutto quello cui abbia potuto regalare, donare o concedere fino a qualche ora prima.
Un bullo di periferia dallo sguardo torvo.
Ti addormenti con gli occhi pieni di luce, il tepore sulla pelle, la pace nelle orecchie e ti risvegli con un pugno nello stomaco: strattonato all’improvviso in piena notte.
Apri gli occhi senza vedere quasi nulla.
Li stropicci pensando di essere ancora addormentato: “forse conviene lavarsi il viso”.
Spalanchi ogni finestra sperando essere solo un brutto film: quello presentato questa mattina.
Invece no, nulla.
E’ tutto vero.
Tutto è stato trasformato, ancora, un’altra volta, ciclicamente, senza stancarsi mai.
Dove prima c’erano secchiate di colori ora non c’è più nulla.
Dove prima la vista non riusciva a mettere a fuoco pezzi di natura tanto distanti, ma nitidi, ora tutto è mutato, nascosto.
Una valanga di grigi ha coperto ogni dettaglio.
Ci si ritrova a dover distinguere toni diversi di uno stesso colore.
L’azzurro del cielo, sostituito nel momento di massima luce, da un tenue grigio chiaro.
Interi boschi nascosti da bui nuvoloni grigio scuri: quasi neri.
La vista totalmente oscurata da un mantello con l’ingiusta capacità  di rendere tutto uguale.
E se tutto questo non fosse abbastanza, l’inizio della nascente stagione ha deciso di voler lasciare il segno nei ricordi, strafare, aggiungendo anche la pioggia.
Una perfezionista, nella sua totale mancanza di empatia.
Un paesaggio quasi bieco, triste, monotono, annacquato. 
Anche la gente è stata contagiata: ora chiusa nelle spalle e nei pensieri, lo sguardo basso, coperta da strati di indumenti caldi a proteggere e confortare.
Si cerca nel tepore artificiale, quella mano sulla spalla capace di rincuorare e promettere l’arrivo di una nuova estate, dove tutto è più semplice, facile e a fuoco.
Si cerca, rovistando nei ricordi appena consolidati, le emozioni frutto di tanta spensieratezza:  ora abbandonate dietro la porta, al freddo.
Ma il pugno in faccia scagliato da questo nuovo inizio, l’autunno, con lo scopo di riportare tutti nella più viva quotidianità , dopo i bagordi estivi, ha un pregio.
Il pregio di nascondere, mascherare, appena passata la forza e la voglia di volersi imporre, i nuovi colori caldi: una marea di giallo, arancione, marrone nascosti dietro l’angolo o sotto ogni pietra.
Il pregio di regalare boschi variopinti da foglie fluttuanti e colorate capaci di riscaldare gli animi con la bellezza della vista.
Un dipinto differente da notare solo voltando lo sguardo in direzioni diverse.
Il pregio di riuscire a rammentare l’esistenza della bellezza nonostante sia stata preceduta dalla cupezza del monotono grigio.
Il pregio di riuscire a trasformare se stesso da brutto anatroccolo a splendido cigno nel pieno della sua maestosità .
Perché è così: nulla è davvero brutto, nero, cattivo e incapace di cambiare – sempre. –
O forse si?

Suicidio

Un uomo alto, forte, vigoroso, pieno di vita.
Un uomo capace di esaudire – con la forza del lavoro – i propri desideri.
Un uomo pieno di luce, dentro, in grado di dare luce, fuori.
Cielo sereno sopra di lui, aria limpida intorno a lui.
All’improvviso o lentamente, non si sa: le nubi.
Il buio si appropria dello spazio attorno, prima totalmente nitido.
Il fumo nero e denso riempie le narici, rallenta il respiro, ingombra i polmoni.
Un grosso zaino – carico di pietre – pesa sulle spalle incapaci di sostenere un peso mai immaginato.
I volti – prima amici – trasformati in ritratti da scrutare da lontano, irriconoscibili.
I ricordi – in precedenza locomotive trainanti la gioia di affrontare le giornate – totalmente alterati o trasformati in maschere inespressive.
Come un arcobaleno si dissolve alla luce del sole, così un uomo viene cancellato da se stesso. 
Immagino possa essere questo l’inizio della fine di una persona.
E non parlo della fine fisica, naturale e inesorabile per tutti, no.
Bensì di quel senso di impotenza, incapacità , frustrazione, isolamento, tristezza, buio.
Quella convinzione – sbagliata – di non poter più risolvere nulla con la forza del proprio essere.
Come una goccia di nero petrolio inquina – espandendosi – un intero contenitore d’acqua limpida, così il senso di immobilità , partendo dal centro dello stomaco, si propaga – come un cancro – verso ogni cellula dell’uomo.
E tutto questo convince, la mente prima e l’anima dopo, a trovare una sola ed unica soluzione.
La soluzione più estrema, duratura e liberatoria per l’animo di quel pover’uomo.
La morte tramite il suicidio.
Reso totalmente cieco dalle sabbie mobili in cui è sprofondato, dove trova quell’attimo di spietata lucidità , tale, da infondere in sé il coraggio per annientarsi, annichilirsi, distruggersi?
Quali pensieri traboccano dalla sua testa nei minuti precedenti?  
E se quell’uomo, con questo gesto folle privo di qualsiasi logica, riuscirà  ad alleviare i brividi costanti, duraturi, impietosi che lo tenevano imprigionato nella gattabuia della sua mente, cosa ne sarà  di chi quel gesto potrà  e dovrà  solo subirlo?
Chi rimane si ritroverà  all’improvviso con la faccia a due centimetri da un mastodontico autocarro d’acciaio lanciato a tutta velocità  su di sé.
L’impatto sarà  inevitabile – in pieno viso – e il corpo verrà  scaraventato a cento metri più in là , martoriato.
E farà  talmente male da rimanere intontiti per chissà  quanto.
Rimarrà  una ferita sempre aperta in cui il tempo – spietato e cinico – infilerà  le sue dita sporche di alcol puro solo per rinnovare e alimentare il dolore.
Chi affronterà  il giorno dopo, dovrà  scontrarsi con la frustrazione, il senso di colpa, l’incredulità  di non aver visto, notato il sole tramontare alle spalle di quell’uomo.
Chi dovrà  continuare a vivere, dovrà  farlo con il cuore ricoperto da un grosso strato putrido di nero carbone, denso, sporco, impenetrabile.
Chiunque gli abbia voluto bene, lo abbia amato, sarà  costretto a guardarsi allo specchio, scorgendo la propria immagine riflessa: ostruita dall’ombra dell’impotenza di non averlo potuto aiutare prima e non poter rimediare dopo.
Chi si macchia di comportamenti immondi può essere acciuffato, giudicato e punito, ma chi rivolta contro se stesso la furia più cieca deve essere compreso, perdonato e ricordato.
Così come dovrà  perdonarsi – per colpe inesistenti – chi si porterà  dietro il ricordo di un uomo  – guida per altri uomini – presente, ormai, solo nei ricordi.
Perché se tragedia deve essere: rimanga isolata.
Perché se tragedia deve essere: non si porti dietro anche la morte dell’anima di chi, quella tragedia, l’ha subita come una doccia fredda chiuso all’interno di un luogo apparentemente sicuro.
Perché se tragedia deve essere: sia reinizio di vita nuova ripulita dai sensi di colpa.