Esserci

Premessa:
questa foto è stata scatta per la mostra “Autofocus” ideata e prodotta dalla fotografa Alice Asinari ed è per questo di sua proprietà .

Foto prodotta e di propriet? di Alice Asinari per la mostra Autofocus.
Didascalia della mostra:
“… E mi troverai qui.
Per sempre.
Per te.”

Didascalia personale:
“Rispettare il proprio essere.
Non tradire le proprie idee.
Esserci sempre.”

Questo è il racconto di come mi sono trovato invischiato in questa situazione:

Amici, una tarda domenica sera, mentre sfuggono dal freddo.
Qualche seggiola, un tavolino e poggiati sopra, alcuni bicchieri gelati.
La schiuma bianca traboccante aggredisce il vicino e indifeso liquido incolore analcolico.
La debole luce riscalda l’ambiente tenuto volutamente privo di passionalità .
Immersi tra gli affluenti delle parole, le conversazioni, i racconti, i ricordi.
Dalla faretra colma di frecce, vengono prelevate e scagliate idee nel vuoto.
Tra di esse, una colpisce il centro del bersaglio.
Involontariamente, ma lo fa.
E così ti ritrovi ad essere tu, per una volta, il cerchio rosso al centro del bersaglio.
Colpito e affondato da una di quelle frecce.
Perché quando un amico, un’amica in questo caso, racconta involontariamente di non essere riuscita a risolvere un piccolo intoppo, non puoi fare a meno di offrire un appiglio a cui aggrapparsi.
E da tutto ciò ti ritrovi a far parte di un’idea prima, di un progetto dopo.
Idea voluta, curata e prodotta dalla momentanea proprietaria di uno di quei bicchieri.
Idea che mi ha permesso, insieme a tanti altri ragazzi, di essere un attore diretto dalla regista di tutto.
Idea che alla fine ha dato come risultato questa foto.
E quella che doveva essere una soluzione ad un intoppo, si è trasformata in una nuova esperienza per me.

Giornata storta

Nascono così, per caso, quando meno te lo aspetti e nei momenti sbagliati, sempre.
Sono così inopportune, sleali, sgarbate da infastidire e far scuotere la testa persino alla persona più serafica del mondo.
Te ne accorgi immediatamente. 
Sono sufficienti le prime note della sveglia del mattino.
In quelle giornate storte, anche l’abituale melodia di sempre, il jingle scelto perché possa disturbare il meno possibile, il pezzo ascoltato milioni di volte con l’unico scopo di accompagnare uno dei momenti più delicati della giornata, assume toni sprezzanti.
Si prende gioco di te.
È lui, come ogni giorno, ma, di tanto in tanto, ti preannuncia la genesi della tempesta perfetta.
Assume il compito della bandiera a scacchi in una competizione sportiva.
Come un piccolo folletto cattivo entra dalle orecchie, corre verso il centro dello stomaco, fissa i suoi piedi ben piantati a terra, si porta le mani ai lati della bocca, e dopo un grosso respiro comincia a urlare: 
“preparati, oggi è la giornata storta, nulla potrà  farle conquistare una direzione diversa, opposta”.
Inizia, in questo modo strampalato, la battaglia che si concluderà  solo a sera inoltrata, quando le tenebre avranno coperto lo scempio appena trascorso. 
Ogni oggetto quotidiano, sempre amico, sempre fidato, si tramuta nel potenziale nemico pronto a pugnalarti alle spalle.
Ti ritrovi perciò a scontrarti con la tazzina del caffè. 
Si anima comandata da una forza sconosciuta e immolandosi si catapulta a terra in un lago di sangue, nero.
Il rasoio, sempre attento a coccolare con una dolce carezza la pelle del viso, quella mattina si rivolta contro, solcandolo. 
Lascia la sua inconfondibile firma, dal classico colore rosso vivo.
L’auto, pronta a sopperire ai ritardi nascosti dietro ogni angolo, ha deciso fosse il momento dello sciopero.
In ufficio, il telefono interrompe qualsiasi attività  solo per il gusto di farlo.
La biro, fedele compagna da tempo immemore, tenta il suicidio gettandosi nel vuoto dal quarto piano.
Ti irride allo stesso modo il primo boccone del pranzo. 
Il burlone ha nascosto nel suo interno una minuscola sfera infuocata solo per il gusto di farti smarrire, per il resto del pasto, il piacere di goderti i piaceri dei sapori.
In questo modo, continua, nonostante i tuoi incessanti sforzi per contrastare la serie di eventi infausti, la giornata brutta, sghemba, negativa.
La giornata dove tutto quello che può andare storto, andrà  peggio.
Non ci sono motivi apparenti del perché accada.
Succede.
Lo sperimentiamo tutti, chi più chi meno, e nessuno ne è esente.
Capita, capita e basta.
È come se l’universo sentisse la necessità  di riequilibrare una sorta di bilancia delle positività  e negatività .
Quando ti da qualcosa di bello, all’improvviso te lo ritrovi dinanzi a muso duro, pronto a recriminare la sua parte.
Eccoli, sono lì davanti a me, riesco persino ad ascoltarli mentre parlottano.
Una conversazione tra pari: 
“no mio caro, ora basta. 
È giunto il momento di restituire qualcosa”;
“mi hai dato delle emozioni, belle d’accordo, ma non posso restituirtele”
“non puoi o non vuoi?”;
“beh, forse entrambi”;
“allora mi riprendo qualcosa con la violenza e ti impongo una giornata brutta”;
“no ti prego, la giornata storta no”;
“ormai è deciso”.
In realtà , se ci penso realmente, sono piccoli episodi che accadono più spesso di quanto immaginiamo.
Ciò che cambia è la sensibilità  del momento in cui li viviamo.
A volte, siamo così felici da non riuscire a farci togliere quel sorriso stampato in volto, neanche con una cannonata.
Il problema, si pone quando così non è.
Quando la tristezza ha fatto capolino in quella giornata, definita storta, tutto il vissuto lo scambiamo, lo confondiamo con un masso lanciatoci contro con il solo scopo di colpirci violentemente, di farci stare talmente male, da regalarci la possibilità  di piangere, di sfogarci, di buttare fuori l’incontenibile. 
Forse, per non vivere altre giornate brutte, dovremmo trovare la forza di fare un passo a lato per evitare quel masso mentre ci sta piovendo addosso, evitando così di arrivare al punto di implodere.

Gli errori

Dormire, l’atto quasi più naturale del mondo, si è trasformato in una sfida degna della guerra del Peloponneso.
Il continuo esplorare ogni possibile angolo del letto, nel tentativo di scoprire chissà  quali terre, emerse nella brevissima notte precedente, non ha sortito nessun esito.
La piccola macchina del caffè, tanto giovane da offrire oro nero di pessimo gusto, ha avuto il buon senso di non commentare ciò che aveva davanti.
I silenzi del mancato mattino, sono interrotti dall’avvio di tante giornate che stentano, loro malgrado, a partire.
Nevica.
Il freddo ha avvolto tutto ciò possa essere capitato, anche solo per caso, sotto la sua mano.
Una distesa di ghiaccio bianco, fa da regia ad un film comico strabordante di goffi movimenti innaturali.
Il cambio di programma improvviso, mette a dura prova la ritualità  dei momenti scanditi da una normalità  ormai venuta meno.
È come guidare su una strada piena di curve, tentando di andare sempre dritto.
Puoi mentire a te stesso.
Puoi tentare di ignorare tutte quelle curve, ma prima o poi dovrai cedere e seguire la direzione scelta da qualcun altro, da chi in precedenza ha deciso che in quel determinato punto ci debba essere una svolta, un tornante, un tunnel.
Procedi a tentoni tra lo scandire del tempo che cinico, si beffa di te.
Rallenta arbitrariamente il suo corso, nel momento in cui tutto precipita, per riprendere beffardo a correre quando vorresti goderti quel microscopico momento di vittoria.
Speri sia solo il breve ossimoro della più bella giornata della tua vita.
Non oggi. 
Forse domani.
Oggi ci sono ancora tanti piccoli gesti sbagliati da compiere.
Oggi ci sono ancora tante piccole cose sbagliate da dire.
Oggi ci sono ancora tanti piccoli errori da commettere.
In fondo il buongiorno si vede dal mattino.
No?

I nostri malesseri

Un giorno qualsiasi, di un mese qualsiasi, di un anno qualsiasi.
Un parco, anche lui qualsiasi.
Lo scampolo di sole caldo, nel primo pomeriggio di un inverno anomalo, ha risvegliato nei bambini la voglia di trincerarsi in un parco.
Urlano, giocano, si inseguono, si divertono.
Non hanno fronzoli loro, esprimono i propri sentimenti in totale spensieratezza.
I cuccioli di uomo, gli unici capaci di quella forza interiore e indomabile, sono riusciti nell’improbabile compito di far riemergere gli adulti dal torpore delle proprie case.
Rintanati nelle comodità  e protetti da milioni di alibi con i quali giustifichiamo l’ozio quotidiano, siamo solitamente incapaci di sollevare la testa per guardare cosa succede intorno a noi.
Non oggi, non in questo minuscolo angolo di terra.
Le mamme parlottano tra loro.
I nonni sorvegliano con aria greve i futuri eredi.
I papà , troppo assuefatti dalla tecnologia, ignorano tutto ciò possa distrarli, adducendo, come motivazione, la necessità  di dare ai pargoli la loro apparente libertà .
Sedute sulla panchina più esterna di questa area protetta, due amiche.
Sono totalmente ricoperte dall’impalpabile calore del giorno di perielio.
Parlano.
Si confidano.
Servono su un piatto d’argento le proprie emozioni, i sentimenti, gli stati d’animo.
Lo facciamo tutti, chi più, chi meno.
Lo fanno queste due donne, o meglio, lo fa una delle due.
È evidente, dall’aria corrucciata del viso e dalla forza che mette nello stringersi su se stessa, ad essere lei quella bisognosa di liberarsi dai demoni aggrappati alle piccole spalle.
L’altra annuisce, segue con attenzione l’immensa mole di parole provenire dalla direzione opposta.
Di tanto in tanto, risponde, espone il suo punto di vista, cambia involontariamente le espressioni del viso.
Sembra una partita a scacchi truccata, dove uno dei due avversari fa di tutto per far vincere l’avversario.
Pur essendo lontano riesco a cogliere quella dinamica vista e provata da tutti noi milioni di volte.
Nel momento in cui qualcosa ci opprime, sentiamo la necessità  di liberarcene e lo facciamo parlando, o almeno dovremmo farlo.
Perché tutto ruota sulla volontà  e il coraggio di provarci, coraggio che il più delle volte viene meno.
Usiamo sotterfugi.
Ci facciamo vedere tristi per mettere alla prova l’empatia di chi abbiamo di fronte, ma abbandoniamo la presa mentre siamo appesi sul ciglio di un burrone e ci viene offerta una mano come appiglio.
Il timore di essere quelli sbagliati, ridicoli, inopportuni frena ogni possibilità  di confronto.
L’eterna lotta tra il riuscire a risolvere autonomamente i propri malesseri, ed il riconoscere di poterlo fare solo dopo averli vomitati in faccia a qualcuno che abbia voglia di subirli, riempie le giornate di tutti noi.
Chissà  perché sentiamo la necessità  di dimostrare a noi stessi di essere così autonomi, per accorgerci dopo, di esserne totalmente incapaci.
Perché riusciamo a complicare tutto e non facciamo come i bambini?
Dovremmo imparare da loro.
Anzi no, dovremmo recuperare la memoria perduta degli anni in cui eravamo noi quei bambini.

Io o tu?

Domenica pomeriggio. 
È inverno, fa freddo.
Il freddo, oltre a rallentarne i movimenti, rallenta anche i pensieri, le idee, le voglie.
Smaltita l’euforia del sabato sera, si decide di trascorrere questo tempo (che ci traghetta dall’ora del riposo all’ora degli impegni lavorativi) all’interno del guscio protettivo di casa.
Anche io ho preso questa decisione.
Annoiarsi, a volte, è l’unico modo per riposare davvero.
Il sole è quasi tramontato. 
Dalle finestre fa capolino un meraviglioso caleidoscopio di riflessi colorati.
Gli ultimi raggi della giornata, infranti sulle piccole nuvole sparse senza alcun senso nel cielo, regalano uno dei tanti dipinti offerti incondizionatamente dalla natura.
Tutto all’apparenza sembra perfetto, quando una telefonata rompe l’idillio.
“Michi, ho bisogno di parlare, vieni.”
Non una domanda, lo raggiungo.
Arrivato, lo vedo seduto nell’ultimo tavolo a sinistra di questa piccola sala circondata da grandi vetrate.
I divanetti in pelle, verde scuro, vuoti, lo isolano dai pochi avventori presenti.
Le luci calde sulle pareti, colorano l’ambiente con un insolito maquillage vintage. 
In mano un bicchiere, vino, rosso.
Il viso triste, cupo, assorto.
Gli occhi bassi, a fissare il liquido innanzi a lui, tradiscono i suoi pensieri nascosti.
Mi siedo di fronte, lo fisso.
Un fiume in piena mi travolge.
Una valanga disordinata di parole, scaccia violentemente i miei pensieri frivoli del momento.
Il racconto, procedendo a briglia sciolta, mi permette di comprendere l’accaduto, ma soprattutto mi permette di comprendere cosa lo tormenta.
Una frase su tutte lo riassume.
Per cercare di non mentire, ha deluso nuovamente una persona importante.
Ecco, tutto ruota intorno a questo.
Un duopolio in cui tutti ci siamo trovati almeno una volta.
Mentire o deludere?
Scegliere il bene interiore proprio o quello dell’altro?
Perché alla fine la scelta ricade sempre sulla stessa domanda.
Decidere chi è più importante in quel momento:
io o tu?

Il peggio di te

Sono giornate gelide.
Monsieur inverno si è totalmente e incondizionatamente impossessato di ogni angolo.
Ha steso la sua immensa coltre, incurante di chi o cosa potesse essere schiacciato dalle sue pesanti mani.
Si stenta a riconoscere quel mondo estivo, in cui i giorni erano pieni di vitalità , forza e voglia di vivere, alimentati dall’incessante opera del Dio Apollo. 
Anche lui ha preso la sua decisione: è arrivato il momento di impegnarsi meno.
Tutto è cupo, grigio, nascosto, quasi furtivo.
La natura ha perso i suoi colori.
Gli uomini si nascondono dietro i loro avvolgenti e caldi vestiti, ma i loro volti trasudano freddo.
Condividono con l’inverno lo stesso mancato tepore.
Siamo lì, con gli occhi bassi, preoccupati di poter riscaldare con un sorriso un malcapitato sconosciuto incrociato per caso.
Anche la coppia di fidanzati a pochi metri da me ha la stessa espressione.
Si tengono per mano, ma i loro visi sono distanti.
Sono vicini con il corpo, ma la loro anima non si sovrappone.
Non più.
I loro occhi descrivono, come un libro aperto, ogni pensiero.
Sono tristi, arrabbiati, lontani.
L’alchimia di una volta svanita.
I giorni felici un lontano ricordo.
Il piacere di essere insieme una inevitabile ipocrisia.
Parlano a voce bassa.
Non vogliono far trapelare i motivi del loro dissentire.
Ma i movimenti del corpo non mentono: sono bruschi, stizziti quasi innaturali.
Litigano.
Mi sembra di essere affacciato ad una finestra.
Vederli, ricorda un incontro di box in cui i due pugili si scambiano colpi ben assestati.
All’improvviso lei lascia la mano di lui.
L’allontana violentemente.
Il suo viso assume i connotati tipici della rabbia.
Gli sussurra qualcosa nell’orecchio.
Anche il viso del giovane ragazzo cambia, gli occhi si abbassano, le labbra si inarcano disegnando una piccola parabola. 
Non replica.
È come se un pugno lo avesse colpito all’improvviso, non si aspettava quel colpo andato a segno.
La battaglia è terminata.
Può solo andare via, abbandonare lo scontro.
Ed è in quel momento che riesco ad ascoltare la sua ultima frase:
“Hai dato il peggio di te”.
Va via.
Riecheggia ancora quella frase dentro di me.
“Hai dato il peggio di te”.
Se ci pensiamo, quel ragazzo ha ragione. 
Siamo sempre pronti a dare il peggio di noi con le persone a cui vogliamo bene.
Siamo sempre pronti a far prevalere i nostri egoismi con chi sappiamo ci perdonerà  tutto.
Siamo fin troppo bravi a vincere battaglie contro chi non vorrà  mai battersi con noi.

Immerso in se

Porto di Campomarino di Maruggio (TA)

Immerso nel suo silenzio, ascolta l’infrangersi delle onde del mare contro i possenti blocchi di cemento. 
Il profumo della brezza lo avvolge come un mantello invisibile. 
Il sole ancora caldo, mentre inizia il suo lungo tuffo nell’acqua cristallina, lo coccola cantando la sua melodia preferita. 
Nulla intorno a lui se non se stesso.

I ricordi

Sono in aereo, uno dei posti migliori per essere soli tra la gente.
Una gabbia di metallo con due poteri antitetici. 
Portarti o allontanarti da chi ti fa felice e allo stesso tempo, portarti o allontanarti da chi ti rende triste.
È molto presto. 
Sbirciando dal finestrino, spuntano all’improvviso le sommità  delle montagne circostanti.
Un paesaggio fiabesco. 
Da quella altezza ricordano piccoli scogli immersi in un mare di batuffoli di cotone mentre le nuvole riempiono gli spazi vuoti tra le vette.
Sono ancora vivi i postumi di una falsa notte passata tra una manciata di ore di sonno e l’incapacità  di rilassarsi totalmente.
Il ricordo di una commissione fa da scudo alla voglia di abbandonarsi alla notte.
Davanti a me un bimbo incapace di lasciarsi andare alla serenità  fa capolino tra i sedili.
Alla mia destra, un uomo distinto di mezza età  inganna l’attesa giocando con un passatempo elettronico.
Alla mia sinistra una ragazza. 
Nascosta dietro i suoi capelli scuri, cerca di riposare ascoltando la sua playlist preferita, le cuffie nelle orecchie la isolano interamente dal mondo esterno.
La foto sullo sfondo del cellulare la ritrae con un ragazzo, suppongo il fidanzato, dall’anello sfoggiato orgogliosamente sull’anulare sinistro. 
Tenta di dormire senza risultati tangibili. 
All’improvviso apre gli occhi.
Un ricordo, un pensiero giunto come un fulmine la scuote dal faticoso torpore in cui si era adagiata inerme e indifesa.
L’estrema e forzata vicinanza mi rende facile notare i suoi i movimenti.
Comincia ad armeggiare con il telefono sfogliando nervosamente la galleria fotografica.
Rubo da quelle poche immagini, pezzi del racconto della sua vita.
Prende forma davanti a me un puzzle incompleto delle sue giornate.
È alla ricerca di un’immagine precisa, importante.
È consapevole della sua esistenza. 
È lì, deve essere lì, per forza.
Va solo trovata. 
Serve un pizzico di pazienza o fortuna.
All’improvviso si blocca.
Prende forma a pieno schermo l’immagine di una donna anziana, elegante, austera.
Stretta in un sorriso colmo di consapevolezza, ritratta su di una poltrona d’altri tempi. 
Ricorda le foto dei nonni di qualche generazione fa, fatte per immortalare e bloccare il tempo.
Lo sguardo della ragazza si colora di un dolce sorriso, ma lascia il posto immediatamente ad uno scuro sguardo triste. 
Continua a fissare quella foto.
Chissà  quanti ricordi sta rivivendo in questo momento, quanti momenti felici ha passato con quella donna o quanti piccoli segreti le ha rivelato. 
Di certo è, o immagino sia stata, una donna importante per la sua vita.
Avrei voglia di chiederle come mai quella necessità  improvvisa, bruciante, impellente (come se ne avesse un bisogno vitale) di rivivere quei ricordi, pur se dolorosi. 
Evidentemente dolorosi.
Ma se ci penso, anche io a volte sento la necessità  di rivivere momenti passati in cui sono stato felice, anche se riviverli fa male, brucia, graffia la mente e il cuore.
La consapevolezza di avere ricordi che non potremo più rivivere è quasi intollerabile.
Ma il dolore che si prova nel farli tornare alla mente è sempre minore del piacere che hanno dato quando si sono formati.
I ricordi, non sono altro che sentimenti sedimentati dentro di noi.
E sono i ricordi che ci danno la forza di crearne altri e aggiungere un altro giorno a quello precedente.  

Il silenzio

A volte decido di dedicare una serata al divano.
Questo strano oggetto capace di fagocitare le persone per lunghe e interminabili ore. 
Uno scrittore di fantascienza potrebbe rappresentarlo come un buco nero. 
Dovrebbe spaventare per il suo totale egoismo, invece ne siamo attratti, lo ricerchiamo, ci buttiamo a capofitto nel suo ventre morbido. 
Lui subdolo, ci tiene ancorati fingendo di coccolarci.
Anche io non sfuggo al suo canto ammaliatore.
La Dea Chione, oggi, ha deciso di amplificare la forza dello strano oggetto, regalando un ampio manto nevoso.
Un intero orizzonte monocolore. 
Le auto, credendosi dei bulli di quartiere, provano invano in tutti i modi a rovinare questo capolavoro della natura.
Un soffice agglomerato di ispirazione per artisti capaci di cogliere le sfumature tra le pieghe delle emozioni che regala.
Non una luce intorno a me.
Devo poter godere appieno di ogni piccolo riflesso di luce artificiale che rimbalza sui fiocchi candidi.
Da l’impressione di essere un immenso esercito di lucciole marcianti verso la stessa direzione, in colonna, disciplinati, ordinati, in pace tra loro, ma soprattutto silenziosi.
Ecco, forse la magia della neve sta nel silenzio che regala.
Il silenzio.
Penso.
Abbiamo perso il piacere del silenzio.
Perché stare in silenzio obbliga ad ascoltare noi stessi. 
Troppe volte fuggiamo dai nostri pensieri usando mille alibi, mille trucchi o sotterfugi fingendo di non udirli, sovrastati dal rumore della quotidianità .
Invece dovremmo ascoltarci di più e più spesso.
Perché la soluzione a molti problemi alla fine è lì, dentro di noi.
Basta ascoltarla mentre tutto fuori tace.

Pozzanghere

Devo buttare del tempo.
Non posso evitarlo, sono bloccato qui.
Fermo, immobile, in macchina, la radio fa come sempre il suo dovere di fedele compagna.
A volte riesce a comprendere quale canzone o pezzo tu abbia bisogno di ascoltare e te lo serve su di un piatto d’argento.
Il sole ormai tramontato ha lasciato il posto alla flebile luce dai classici toni grigi. 
In realtà  è tutto grigio, una strana cartolina monocolore invade il paesaggio circostante, ci si muove con la luce artificiale, quasi a tentoni.
Gli alberi spogli, fissano tutti con la loro aria di vecchi saggi, spenti, stanchi, ma pronti a subire il rigore dell’inverno.
Piove.
Le piccole gocce formatisi tra le nuvole, cadute a terra, hanno creato tante piccole pozzanghere.
Piccoli accumuli di felicità  se osservati con gli occhi dei bambini. 
A loro basta poco.
Un salto lì, al centro, ed è subito festa.
Chissà  perché noi nel diventare grandi, perdiamo quella semplicità . 
Chissà  perché ci ostiniamo a rendere tutto così cupo e triste, giustificando in tutti i modi questo strano comportamento. 
Mah.
Dovremmo ritrovare, noi i grandi, il coraggio di fare un salto al centro della  pozzanghera provando il piacere di saltare tra la felicità . 
Il tempo è passato, vado.