1 + 1 = 1

Riprendere la quotidianità  dopo aver trascorso le meritate – solo per alcuni – giornate di vacanze ha i suoi pregi.
Ci si ritrova a riempire nuovamente i viottoli svuotati dal caldo.
Grandi deserti lasciati in balia di coraggiosi animali – privi di alcun padrone – si trasformano nuovamente in floride piazze rigogliose di persone pronte a calpestarne ogni centimetro.
Tutto viene rinnovato, tutto ricomincia, tutto riprende forma.
La fine dell’estate assomiglia ad un nuovo inizio: una sorta di capodanno a settembre.
Il momento in cui si guarda dietro le proprie spalle e si tiranno le somme.
Chissà  perché, di tanto in tanto, sentiamo la necessità  di fare il punto della situazione, verificare se i piani fatti fino a quel momento sono stati rispettati oppure qualcosa è andato in modo diverso – non necessariamente storto – a volte meglio del previsto.
Si ripercorrono con la mente le giornate calde appena consumate, usate, anche vissute.
Periodo – quello estivo – abile nel regalare momenti euforici o al contrario totalmente abissanti, ma incapace di rimanere immobile; incapace di quell’anonimato tanto sbandierato dalle altre stagioni.
Immerse in una via del centro, confuse tra uno stuolo di anime irrequiete, due donne: una zia con la piccola nipotina.
Una ragazza giovane, minuta, con lunghi capelli neri sfumati da punte color mogano.
L’incedere elegante stretta nelle piccole spalle, il viso furbo illuminato dai suoi occhi azzurri: pronti a cogliere ogni sfumatura proveniente dal mondo circostante, ma soprattutto dal piccolo satellite – tenuto per mano – in grado di rallentarne l’andatura.
“Zia, ma uno più uno fa uno?”
“A volte sì amore”
“Perché non sempre?”
“Perché se a sommarsi sono persone da due ne viene fuori un’altra – nuova. -“
La piccola bimba bionda, dai grandi occhioni neri neri, il viso paffuto e perplesso volgendo lo sguardo interrogativo verso l’oracolo alla sua sinistra, dopo un momento di incertezza è scoppiata in un incontenibile risata.
Quella risposta inaspettata e totalmente fuori portata per una piccola donnina appena affacciata alla vita, le sarà  sembrata una battuta di spirito, tanto da non riuscire a placare l’ilarità  scaturita da quella affermazione.
“Zia, ma cosa stai dicendo… hahahaha” e con la sfrontatezza dell’ingenuità :
“non capisci proprio niente, la nonna lo sa, lo chiedo a lei.”
Non so perché quella normale coppia avesse attirato la mia attenzione, e non so cosa stesse pensando la giovane ragazza per aver dato d’impulso quella risposta.
Aver affidato ad una bambina una affermazione così romantica, dalle mille sfaccettature e con miriadi di interpretazioni diverse è stata una bella scoperta.
In un periodo in cui tutto è dato per scontato, dove i rapporti umani sono coltivati – per fortuna non sempre – su campi aridi, dove l’altruismo è merce rara e vista con occhi diffidenti, ascoltare qualcosa di poco prevedibile – ma bello – mi ha lasciato il piacere di sperare e la consapevolezza di ringraziare.
Ringraziare il presente.
Sperare nel futuro.

Farfalle

La fortuna di passare qualche giorno di vacanza nel paesino di una vita fa è anche quella di ritrovare tutto come lo si è lasciato.
I visi della gente hanno la stessa espressione: rilassato.
Gli anziani poggiati su di un pezzo di marmo duro, – rigorosamente all’ombra – si proteggono dal caldo, ma in realtà  sono agenti segreti mentre raccolgono informazioni – top secret – sulla popolazione.
I ragazzini giocano al centro di piccole stradine noncuranti dei mezzi di trasporto occupati a schivarli.
Una comunità  ferma al tempo in cui anch’io facevo parte di questi rituali fuori da ogni comprensibile logica moderna.
Persino le buche nell’asfalto sono sempre le stesse, non cambiano, non evolvono, non vengono riparate, sono le pietre miliari di questo angolo di mondo.
“Ci vediamo alla quarta buca della strada di campagna tal dei tali, altrimenti non riesco a trovarti.”
È davvero strano anche correre in questi luoghi, così come è strano avere in mente una mappa visiva disegnata lustri addietro e ancora attuale.
Allo stesso modo è strano, rivedere e schivare animaletti come delle farfalle.
Piccoli insetti scomparsi dalle grandi città  in cui la compressione del tempo – la fretta – È l’unico animale in grado di incontrare – o meglio – con il quale scontrarsi.
È stata una sorpresa rivedere una prima farfalla bianca, piccola e indifesa svolazzare sui fiori di piccole erbacce.
Ma è stato ancora più sorprendente vedere queste grandi farfalle dai colori giallo e nero, – insetti per me ormai estinti – giocare a rincorrersi fra di loro.
Meraviglia della natura.
Sono queste piccole riscoperte quelle capaci di farti urlare nella testa: “Nonostante tutto: la bellezza è ancora possibile trovarla, riscoprirla, goderne.”

Tramonto

Toh un tramonto.
I tramonti piacciono a tutti.
Non sono come le albe, non hanno bisogno di una sveglia anticipata o di una nottataccia per essere ammirate.
Arrivano in fretta, basta aspettarle, anzi sono loro ad aspettare te.
Puoi avere qualsiasi stato d’animo.
Puoi essere triste: leggerai tristezza in quei colori.
Puoi essere felice: leggerai felicità  negli stessi colori.
Ma disintossicato dagli stati d’animo ti perderai nei colori così diversi fra loro, ma uniti da una linea invisibile.
Mescolati su di una tavolozza a spirale, le linee più esterne dai toni caldi ti spingono verso il centro: posto in cui i grigi trattengono il pensiero.
Non puoi evitare – con lo sguardo – di saltare da un angolo all’altro di questa opera d’arte della natura frettolosa di autodistruggersi.
Ecco, il problema dei tramonti è la fretta.
Hanno troppa fretta di farti rimanere a bocca aperta per scomparire l’attimo successivo.
Non regalano mai il tempo di abituarsi a loro, e mentre cerchi di cogliere una sfumatura, un dettaglio, hanno già  cambiato tutto o sono scomparsi.
Così sarai costretto ad attendere il tramonto del giorno dopo, ma sarà  diverso, non sarà  lo stesso e si prenderà  gioco di te nuovamente.
Sì è proprio la fretta di mutare a rendere il tramonto magico e mai banale.
Chissà  se anche gli umani avessero questo dono cosa succederebbe.

Il mare

San Pietro in Bevagna – Manduria (TA)

Una immensa secchiata di toni di blu differenti.
Un’unica distesa di celeste in cui piccole pennellate di bianco si burlano degli spettatori disinteressati.
Riflessi dorati si inseguono come bambini con un pallone.
Tutto sembra naturale e scontato, anche il bello, quando si ha la fortuna di abituarsi a lui.

Trasloco

A prima vista può sembrare un contenitore inanimato.
Assume dimensioni, forme, colori diversi, ma rimane pur sempre un contenitore.
Quattro pareti, un tetto, una piccola apertura per oltrepassarlo ed ecco servita la prima definizione di casa.
Poi avviene di utilizzare quel contenitore: quotidianamente.
Diventa l’amico – sempre presente – di tutto ciò accade a chi quel contenitore lo vive, lo abita, a volte lo detesta.
Non giudica mai, protegge – quasi sempre – e tiene fuori ciò non vuoi venga mostrato.
E mentre i giorni passano, lo riempi di oggetti – diversi tra loro – alcuni con un grande significato, altri inutili.
La metafora della vita di tutti i giorni.
Lo personalizzi, lo trasformi, lo rendi tuo oppure a tua immagine, diventa una parte di te perché racconta te. 
Ci si può fare un viaggio in una casa, si può scorgere – senza farselo raccontare – chi è stato, chi è, e forse chi sarà  la persona contenuta in quel contenitore.
Ma senza preavviso la scatola diventa troppo stretta oppure il contenuto troppo ingombrante.
Ingombrante fino al punto da non andare più d’accordo con il contenitore: si scontrano, litigano; finché non si deciderà  di sostituirlo con uno più grande, piccolo o semplicemente diverso.
La decisione è ormai presa: qui non si può più restare.
“E’ tutto pronto, devo solo traslocare! “
Il momento in cui tutto cambia: il trasloco.
Pieni di speranze, aspettative, progetti, si usa questo momento per decidere cosa vale la pena far rimanere un ricordo e cosa invece è bene dimenticare.
“Ooh quanti ricordi questo oggetto, non ricordavo di averlo, nella nuova casa avrà  un posto in prima fila!”
“No, tu no, tu è bene finisca la tua vita terrena sul fondo di un cestino, ti porti dietro troppi ricordi negativi: devi essere dimenticato”
E con questo rituale si passa in rassegna ogni singolo oggetto, ricordo, pezzo di vita, prima di venire stipato all’interno di un grosso camion, con il compito – a volte ingrato – di riconsegnare – a noi stessi – ciò abbiamo deciso essere parte di noi.
Si mette nelle mani di alcuni sconosciuti qualsiasi la nostra storia, il nostro passato, i nostri ricordi.
Riponiamo una fiducia quasi incondizionata in queste persone.
Potrebbero distruggere tutto, potremmo ritrovarci con un pugno di mosche in mano se solo lo volessero o se il destino decidesse in tal modo.
Non è questo il caso.
Tutto avrà  una nuova collocazione all’interno del nuovo contenitore, compresa l’importanza data a quel ricordo, a quell’oggetto, a quel frammento di passato.
Perché questo siamo: siamo futuro poggiato su uno strato – quasi solido – di passato.
Perché potremo traslocare infinite volte, ma la nostra storia, le nostre esperienze, il nostro essere ci seguirà  per dirci da quale punto ricominciare, senza dover fare passi indietro e ripercorrere gli stessi medesimi pezzi sbagliati di storia: errori.

Il vecchio

Un uomo curvo sotto il peso dell’esperienza.
Le braccia dietro la schiena tradiscono la stanchezza.
Un vecchio berretto sulla testa comprime i pensieri.
Va’ a passo lento – sul sentiero già  tracciato da altri – nel bosco dei ricordi.
Sereno – sostenuto dal leggero vento alle spalle – percorre brevi momenti vissuti, importanti.
Sorride – sapendo di non poterne creare molti altri – consapevolezza di fortuna.
Guarda il cielo – disteso sul prato morbido – lo spostarsi irregolare delle nuvole, impossibile fermarle, spedite.
Ringrazia.
È stato, non sarà .

Casa

Capita di passare molto tempo in un posto.
Sempre lo stesso.
Ti ci abitui, diventa familiare.
Usi la solita panchina.
Cerchi di fermarti nel solito angolo.
Parli con le stesse persone divenute quasi familiari.
Crei il tuo rituale per sentirti al sicuro, protetto, a casa.
Una manciata di minuti della giornata saranno impiegati per stare lì.
Così per spezzare la frenesia delle giornate questo angolo si trasforma, per caso, nel polmone artificiale che ti permetterà  di respirare una volta in più.
Ma all’improvviso, senza alcun motivo apparente, si svuota, perde il suo scopo.
Ti ostini, ci torni più volte sperando sia solo un caso sporadico l’essere vuoto.
Alla fine devi arrenderti.
Quel posto è vuoto e non si riempirà  nuovamente.
Lo fotografi, lo memorizzi, e lo custodirai dentro come il posto che ti ha fatto sentire a casa.

Viaggio

Il freddo è stato scalzato dal caldo torrido.
L’inverno messo ko dalla stagione più attesa dell’anno: l’estate.
Stagione capace di regalare aspettative, sogni, delusioni.
Dalla finestra dell’ufficio: le nuvole, intimidite dai prepotenti raggi del sole – rinvigorito dalla sicurezza del proprio essere iperattivo – si chiudono in sé a formare piccoli batuffoli di cotone vaganti senza alcuna meta. 
“Domani iniziano le tue vacanze?”
“Sì, finalmente, non vedo l’ora, sono così stanco, sento il bisogno di ricaricarmi e farmi qualche bel regalo.”
“Chi sono i tuoi compagni di viaggio?”
“Il compagno. Il più importante. Io.”
Mancano ventiquattro ore, l’indomani, dopo aver gettato qualche straccio in una valigia logorata dall’uso eccessivo, un aereo porterà  il signor X lontano dagli impegni scanditi da una agenda da rispettare.
Nel cuore la voglia di abbandonare – senza rimorsi –  la tristezza accumulata dalla serie di episodi negativi accaduti nell’ultimo periodo.
Ha scelto un posto qualsiasi, unica condizione: il mare.
Un uomo, descritto dal Sommo Poeta come: “nel mezzo del cammin di nostra vita” ha sentito la necessità  di regalarsi un film.
Ha deciso di voler rivedere il lungometraggio della sua vita, come fosse seduto in una cabriolet davanti lo schermo di un drive-in.
Sente la necessità  di guardarsi dentro, per una volta; troppe volte ha ignorato quella voce partire dal centro della pancia.
Come è riuscito ad accumulare così tanti errori?
Perché tutto è andato storto?
“Signore la sua carta d’imbarco, faccia buon volo.”
“Grazie, buon lavoro.”
Dal piccolo balcone della sua camera d’albergo, si intravede in lontananza, il profilo netto del cielo poggiato sul mare. 
Sembrano due liquidi incapaci di mescolarsi; due persone diverse, ma capaci di stare fianco a fianco, sempre.
Disfatta la valigia, dal telefono della camera programma la sveglia per il giorno seguente, non vuole perdersi il nascere del sole sul mare.
Lo stesso rituale ripetuto per una intera settimana: dopo essersi preparato, con il telo in una mano ed un libro nell’altra, va ad occupare una piccola duna di sabbia, un micro promontorio dona una prospettiva diversa al dipinto – mai immobile – osservato negli ultimi giorni.
Nelle orecchie la melodia continua delle onde infrante sulla sabbia.
Una distesa immensa d’acqua immobile fa da sipario al sole.
Lo tiene nascosto finché non deciderà  di mostrarsi, scaldando e illuminando con un grosso abbraccio, chiunque si trovi sotto il suo mantello.
Una miriade di piccoli riflessi dorati rimbalzano – come pietre lanciate da un bambino – sul manto azzurro.
Mister X è lì, vuole godersi quello spettacolo senza la possibilità  di interferire con la natura.
Vuole usare quell’immagine per rigenerare, per richiamare i ricordi degli episodi causa di quel male, di quella malinconia interiore portata sulle spalle per troppo tempo.
Rivede e rivive ogni istante, ogni episodio, riprovando le stesse emozioni di quelle originali, di quelle capaci di ferirlo, straziarlo, farlo cadere nuovamente a terra.
Ed è in quel momento, con quell’immobilità  del corpo, con quelle immagini variegate davanti agli occhi, con quel ripetere gli stessi gesti tutti giorni, che la natura gli sussurra la soluzione al suo dilemma.
Il suo errore è stato quello di non fare errori.
Subire passivamente le decisioni degli altri lo ha portato a sbagliare, irrimediabilmente.
Rimanere affacciato alla finestra, guardando la vita scorrere, con l’idea di poter fare sempre la cosa giusta senza fare nulla, lo ha portato all’errore più grande, dimenticare se stesso.
“Signore, mi spiace abbia interrotto la vacanza.”
“A me non spiace, ho una vita da cominciare a vivere.”
“Allora ha ragione, non la trattengo “
“La vacanza è finita. Vado a sbagliare.”

Suicidio

Un uomo alto, forte, vigoroso, pieno di vita.
Un uomo capace di esaudire – con la forza del lavoro – i propri desideri.
Un uomo pieno di luce, dentro, in grado di dare luce, fuori.
Cielo sereno sopra di lui, aria limpida intorno a lui.
All’improvviso o lentamente, non si sa: le nubi.
Il buio si appropria dello spazio attorno, prima totalmente nitido.
Il fumo nero e denso riempie le narici, rallenta il respiro, ingombra i polmoni.
Un grosso zaino – carico di pietre – pesa sulle spalle incapaci di sostenere un peso mai immaginato.
I volti – prima amici – trasformati in ritratti da scrutare da lontano, irriconoscibili.
I ricordi – in precedenza locomotive trainanti la gioia di affrontare le giornate – totalmente alterati o trasformati in maschere inespressive.
Come un arcobaleno si dissolve alla luce del sole, così un uomo viene cancellato da se stesso. 
Immagino possa essere questo l’inizio della fine di una persona.
E non parlo della fine fisica, naturale e inesorabile per tutti, no.
Bensì di quel senso di impotenza, incapacità , frustrazione, isolamento, tristezza, buio.
Quella convinzione – sbagliata – di non poter più risolvere nulla con la forza del proprio essere.
Come una goccia di nero petrolio inquina – espandendosi – un intero contenitore d’acqua limpida, così il senso di immobilità , partendo dal centro dello stomaco, si propaga – come un cancro – verso ogni cellula dell’uomo.
E tutto questo convince, la mente prima e l’anima dopo, a trovare una sola ed unica soluzione.
La soluzione più estrema, duratura e liberatoria per l’animo di quel pover’uomo.
La morte tramite il suicidio.
Reso totalmente cieco dalle sabbie mobili in cui è sprofondato, dove trova quell’attimo di spietata lucidità , tale, da infondere in sé il coraggio per annientarsi, annichilirsi, distruggersi?
Quali pensieri traboccano dalla sua testa nei minuti precedenti?  
E se quell’uomo, con questo gesto folle privo di qualsiasi logica, riuscirà  ad alleviare i brividi costanti, duraturi, impietosi che lo tenevano imprigionato nella gattabuia della sua mente, cosa ne sarà  di chi quel gesto potrà  e dovrà  solo subirlo?
Chi rimane si ritroverà  all’improvviso con la faccia a due centimetri da un mastodontico autocarro d’acciaio lanciato a tutta velocità  su di sé.
L’impatto sarà  inevitabile – in pieno viso – e il corpo verrà  scaraventato a cento metri più in là , martoriato.
E farà  talmente male da rimanere intontiti per chissà  quanto.
Rimarrà  una ferita sempre aperta in cui il tempo – spietato e cinico – infilerà  le sue dita sporche di alcol puro solo per rinnovare e alimentare il dolore.
Chi affronterà  il giorno dopo, dovrà  scontrarsi con la frustrazione, il senso di colpa, l’incredulità  di non aver visto, notato il sole tramontare alle spalle di quell’uomo.
Chi dovrà  continuare a vivere, dovrà  farlo con il cuore ricoperto da un grosso strato putrido di nero carbone, denso, sporco, impenetrabile.
Chiunque gli abbia voluto bene, lo abbia amato, sarà  costretto a guardarsi allo specchio, scorgendo la propria immagine riflessa: ostruita dall’ombra dell’impotenza di non averlo potuto aiutare prima e non poter rimediare dopo.
Chi si macchia di comportamenti immondi può essere acciuffato, giudicato e punito, ma chi rivolta contro se stesso la furia più cieca deve essere compreso, perdonato e ricordato.
Così come dovrà  perdonarsi – per colpe inesistenti – chi si porterà  dietro il ricordo di un uomo  – guida per altri uomini – presente, ormai, solo nei ricordi.
Perché se tragedia deve essere: rimanga isolata.
Perché se tragedia deve essere: non si porti dietro anche la morte dell’anima di chi, quella tragedia, l’ha subita come una doccia fredda chiuso all’interno di un luogo apparentemente sicuro.
Perché se tragedia deve essere: sia reinizio di vita nuova ripulita dai sensi di colpa.  

Il lago

Un lago: fuori dai confini.
Una fila d’anatre: spezza lo sguardo.
Due cigni: osservano ciò che visibile non è.
Il pensiero: in una sola direzione.
Il cuore dice all’anima: respira.