Gli occhi di Gino

Questo racconto è stato pubblicato nell’antologia “Le parole in un click” acquistabile qui ed edito dalla casa editrice Incipit23.

Copertina
Foto di: Max & Douglas

Un uomo discreto dal sorriso sempre in primo piano, mai ostentato, ma sincero. Un sorriso che parte dal cuore: la natura ha deciso così, deve essere naturale, spontaneo, donare e infondere dolcezza. Occhi nerissimi, quasi impenetrabili ad uno sguardo superficiale, messi lì non per respingere, ma per regalare la possibilità  di guardarsi dentro, come trovarsi davanti alla propria anima riflessa su uno specchio. Il viso, senza spigoli o angoli duri, disegnato per infondere fiducia. Grandi mani capaci di compiere dolci movimenti, così come il cuore, immenso. Un uomo non troppo alto, scelta precisa quella di madre natura, con uno scopo rigoroso: non avrebbe dovuto guardare nessuno dall’alto in basso. La sua missione in questa vita sarebbe stata ascoltare tutti, indistintamente. Si chiama Gino. 

Era un bimbo come tanti altri, nato in una terra incapace di regalare lavoro. Una terra dura ma con la qualità  di formare, insegnare come rimboccarsi le maniche, con il compito di far emergere la nostra parte nascosta, far esaltare i propri talenti. “Mamma, papà  ho deciso, non posso rimanere qui, non ho futuro. Vado a cercare la mia strada altrove;”

“Gino, hai ragione, parti e afferra la felicità  ovunque essa sia.”

Gino si ritrova a metà  degli anni ottanta in una piccola provincia del nord, totalmente sconosciuta. Terra affacciata su uno specchio d’acqua, patria di grandi nomi del passato. Con la sua valigia piena di sogni e speranze, si catapulta in una nuova vita da costruire facendo leva sui suoi talenti: ascoltare le persone, essere vicino alla gente, avere sempre la parola giusta o il silenzio giusto da regalare. Non aveva altra scelta se non rischiare tutto in un lavoro a contatto con le persone.

“Apro un bar a Como.”

Protette dalle mura di cinta della città , si districano un manipolo di piccole viuzze a formare un reticolo ordinato di costruzioni in pietra. Tra di esse si distinguono sia i grandi palazzi delle famiglie nobili sia, al pian terreno, le piccole botteghe dei laboriosi artigiani con la testa sempre bassa, impegnati senza sosta nel loro incessante lavoro quotidiano. Quegli instancabili lavoratori dovranno pur fare colazione, mangiare, incontrare i clienti, concedersi un momento di pausa a fine giornata. Quella gente ha bisogno di Gino e del suo nuovo Lario Bar. Saper ascoltare la gente: il suo talento innato – oltre alla capacità  di essere un grande professionista nel lavoro che si è inventato – viene immediatamente notato, diventando, in breve, punto di riferimento del centro città . Le persone si fidano di lui. I clienti, inizialmente sporadici, si trasformano in breve tempo in abituali. L’anziano, in pensione, occupa ogni giorno il solito tavolino in strada. Il gruppo di professionisti, la signora di passaggio, la comitiva di ragazzini cessano di essere clienti e diventano amici di Gino. Tra di loro c’è un piccolo gruppo di adolescenti. Le comitive dei ragazzi, si sa, non hanno mai un posto dove chiacchierare, decidere cosa fare o ingannare il tempo. La scelta obbligata di quei quattro scavezzacollo è quella di eleggere il Lario Bar come casa comune, il salotto dello zio sempre disponibile ad accontentare i nipoti. Tutti i giorni il gruppetto ha la sicurezza di trovarsi lì, senza accordi preliminari, solo per vedersi, solo per il piacere di stare insieme o scambiarsi una pacca sulla spalla. Con il tempo il gruppo si allarga, fa proseliti, diventando una splendida compagnia di quattordici ragazzi. Gino quei ragazzi li vede crescere dentro il suo bar, li conforta nei momenti difficili, li sostiene, esulta con loro per i traguardi raggiunti.

Gli anni passano, il Lario bar si trasforma in Como Bar e i quattordici ormai cresciuti sono diventati professionisti affermati nella vita. Ognuno di loro ha una famiglia da sostenere e coccolare, delle responsabilità  da non ignorare, delle incombenze da non dimenticare, ma nonostante questo hanno un punto fermo: a fine giornata qualsiasi cosa succeda si abbracciano da Gino, nel loro salotto, quello scelto tanti anni prima, nell’angolo a destra in fondo alla sala. È il loro modo per dirsi: “ragazzi siamo qui, sempre insieme, nonostante tutto, ognuno per l’altro”. Purtroppo il tempo passa anche per Gino, sente la stanchezza di quell’immensa massa di anni passati dietro al bancone. Le mani, una volta veloci e attente, iniziano a subire gli acciacchi del troppo freddo subito. Nella sua testa comincia a sgomitare quella vocina flebile che gli ripete: “è ora di godersi la vita, hai lavorato abbastanza, molla tutto, la pensione è dietro l’angolo, devi solo stringerla con le mani.” Si lascia convincere. Una sera, mentre gli unici clienti sono il gruppo dei quattordici intenti a scherzare fra loro, Gino fa deflagrare una bomba inaspettata: “Ragazzi, devo dirvelo, non ce la faccio più, sono stanco vendo il bar e mi godo la pensione”. I volti di tutti all’improvviso sono stati avvolti da una cortina di tristezza mista a incredulità . È stato come ricevere un pugno al centro dello stomaco, sbam, senza preavviso. Pensare che un giorno il bar potesse chiudere non era mai stato preso in considerazione dal gruppo di amici; c’era la certezza, qualunque cambiamento fosse arrivato, di trovare Gino dietro il bancone a sostenerli o supportarli. Sono spiazzati, la pietra miliare di tutti quegli anni vacilla, non sanno cosa fare e nell’incertezza fanno l’unica cosa giusta: aspettano. Lasciano correre le lancette dell’orologio, hanno bisogno di plasmare quella notizia con delle forme meno spaventose. Inconsciamente sono consapevoli di non poter agire d’istinto. Il gruppo continua a incontrarsi e il bar è ancora in vendita. Hanno la soluzione a portata di mano ma non la vedono, ma l’idea di perdere la quotidianità  con quel vecchio zio che li ha visti crescere li indirizza sulla giusta via. “Ragazzi come faremo senza il Como Bar?”
“Impossibile trovarne un altro, adesso i locali sono tutti pieni di ragazzini preoccupati solo del loro cellulare e dello Spritz.”

“Non posso credere di dover rinunciare al nostro ritrovo.” Madre natura non vuole che i fulmini avvisino dove cadere e, allo stesso modo, l’idea capace di risolvere tutti i problemi, in un solo colpo, giunge improvvisa.
“Compriamo noi il Como Bar.”

“Ma stai scherzando? Abbiamo già  un lavoro, le famiglie, gli impegni, sarebbe impossibile mandare avanti il locale!”

“Non avete capito, noi ci limitiamo a comprarlo, siamo quattordici. Ognuno di noi investe un piccolo gruzzolo, assumiamo qualcuno e lo paghiamo con gli incassi del bar. In questo modo facciamo un regalo a Gino ed uno a noi.”
Quell’idea, nata per caso come uno scontro con una farfalla nel mezzo di un bosco, è diventata realtà . Oggi il Como Bar è di proprietà  dei ragazzi cresciuti in mezzo a quei tavoli. Loro continuano a vedersi ogni sera e Gino è sempre dietro al bancone. Nonostante la pensione. Nonostante gli acciacchi. Nonostante la sua creatura non sia più sua. Ma i suoi occhi continuano a specchiare i cuori degli amici del Como Bar.

Leonardo Sciascia

Il più bell’esemplare di fascista in cui ci si possa oggi imbattere (e ne raccomandiamo agli esperti la più accurata descrizione e catalogazione) è quello del sedicente antifascista unicamente dedito a dare del fascista a chi fascista non è.

Massimo Bisotti

In certi momenti ti mancherà così tanto da sentire un buco nello stomaco, profondo come un silenzio incolmabile, in altri ti riempirai di parole consolatorie e ti dirai: è meglio così. In certi momenti ne parlerai, seduto su una panchina, immobile, in altre cercherai di fuggire lontano sperando di dimenticare il suo nome. In certi momenti sarai solo più fragile, in altri forte e pieno di impegni per stemperare i pensieri. Siamo anime in altalena su un terreno di ricordi. Una mattina ti sveglierai con una pozzanghera sotto ai piedi, le mani sulle corde, il tepore del domani. e fra il pensarci per ricordare e il non pensarci per dimenticare, preferirai scendere.

Una primavera con la corona

Il sole inizia ad affacciarsi sui tetti delle case: bussa ai vetri delle finestre rivolte nella sua direzione. Una miriade di arancioni vengono stagliati in ogni angolo visibile, predominano sugli altri, mentre lottano con i celesti che a breve vinceranno la guerra. Qualche nuvola sparsa qua e là ha il compito di filtrarne le sfumature dando volume ai colori, regalandogli forma e consistenza riconoscibile, rendendoli vivi come se si potessero toccare con mano. Inizia a sbocciare il tepore rassicurante della primavera, mentre l’inverno sembra sia andato definitivamente in soffitta, decidendo autonomamente di rinchiudersi nel baule: sarà la sua casa per il prossimo semestre. È il periodo dell’anno in cui tutto riprende vita. Così come gli atleti si preparano davanti ai blocchi di partenza in attesa dello sparo d’inizio, così la natura esplode soffiando nei polmoni delle sue creature. Dagli alberi ai fiori, dagli insetti agli animali, tutti svegli dopo il lungo riposo dovuto al freddo invernale che acquieta e cristallizza ogni essere. Anche gli uomini attendono con ansia, quasi trepidanti il momento di ripartire, sognano la primavera. È il momento dei nuovi propositi, “dei farò”, dei “mai più”. Una storia ripetuta ogni anno, sempre uguale, poco importa se le promesse fatte non mutano, importa solo rinnovarle o farne di nuove, perché la primavera è speranza, è progetto, è futuro. Noi umani abbiamo la necessità di avere degli obiettivi, ci rassicurano, ed usiamo questi momenti arbitrari ma rappresentativi per tutti, per archiviare ciò che può essere andato storto; un modo per allinearsi al ciclo periodico e rasserenante della natura.

Poco prima di questo avvio, ce ne stavamo stretti nelle coperte di lana sui divani all’interno delle nostre case. L’inverno, da vero burlone, gettava pezzi di primavera tra le giornate gelide di un noiosissimo febbraio; profumi conosciuti solleticavano il naso mentre la gioia di vivere degli insetti rompeva il silenzio dei nuvoloni grigi. Da lontano, come un’ouverture eseguita a sipario chiuso, abbiamo avvertito senza riconoscerle, le prime note di un’opera mai ascoltata. Sono state note talmente flebili e sottotono da essere ignorate, troppo distanti per essere viste, troppo stonate per essere ascoltate con l’attenzione che avrebbero meritato. Il maestro J. M. Ravel, nel suo Bolero, fa iniziare due fiati e come una valanga aggiunge ad ogni ripetizione altri strumenti al tema, e allo stesso modo lo tsunami della novità ha travolto le nostre vite iniziando da piccoli buffetti, ma ha aggiunto pugni sempre più forti, tutti nello stomaco, al centro. Essendo una novità è stata mascherata con un nome regale, degna di un sovrano e di quello che lo identifica come tale: la corona; a questa novità è stato dato il nome di “coronavirus”. Chissà perché gli scienziati si divertono a dare nomi rassicuranti a qualcosa che può solo spargere paura, infondere incertezze o togliere la vita. Bah. Ciò che ci caratterizza è stato spazzato via. Prima della novità, c’era il piacere di concedere ad un estraneo totale fiducia, gratuitamente, perché c’è sempre tempo per perderla, mentre ora siamo stati costretti a diffidare di tutti. Cerchiamo nell’altro i segni del pericolo o di quello che può farci male. Analizziamo come detective chi è davanti a noi alla ricerca di indizi compromettenti. Chi abbiamo di fronte, rigorosamente ad almeno un metro, si è trasformato da persona da conoscere in persona pronta a colpirci, farci soffrire, perché trovare qualcuno su cui puntare il dito è rassicurante, ci toglie il peso dall’aver sbagliato. Ci è stato chiesto di allontanarci con i corpi per non ammalarli, ma lo abbiamo scambiato con allontaniamo, anche e soprattutto, i sentimenti. Perché è inevitabile, cercando di vivere dentro una campana di vetro, non possiamo intrecciare nuove emozioni o relazioni, né risolvere eventuali conflitti: saranno sommate alle preoccupazioni delle incertezze. Abbiamo dovuto indossare le mascherine per non aprire la porta al virus, quello con la corona, ma abbiamo chiuso la porta ai sorrisi. Un sorriso era un semplice gesto, ma aveva la forza di dire “Sono una persona buona e lo sei anche tu, ed incontrarti mi ha regalato un po’ di calore”. Ora, invece, sembriamo dei manichini, inespressivi a causa dello scudo sul viso e così pieni di timore da abbassare gli occhi nell’incrociarne altri, come se fossimo gli autori di chissà quale delitto. Siamo diventati tutti potenziali omicidi. Abbiamo perso la possibilità di riconoscere una risata o un pianto, un momento di rabbia da uno di paura; questo virus che di regale non ha nulla, ci ha rubato l’empatia. La provvista personale era già limitata, ma ora è stata azzerata del tutto. Questo maledetto essere invisibile ci ha tolto la possibilità di donare un abbraccio, per gli scienziati occupati a tenere in vita i corpi è quasi peggio del virus stesso. Ma un abbraccio è vita, è calore, è supporto, è amore, ed i corpi rimangono vivi perché possono nutrirsi anche di questo cibo che non deve essere ingerito, ma nutre a volte, più di un pasto abbondante. Ci è stato impedito di dare un bacio. Il gesto universale capace di rappresentare l’amore. Come lo spieghiamo adesso ai bambini, quando si faranno male, che non potremo curarli con la medicina più potente di tutti? E dopo tutto questo, e nonostante questo, un corpo può anche perdere la battaglia contro il virus e qui si compirà l’ultima tragedia: l’impossibilità di salutare per l’ultima volta quella persona. Cosa può esserci di più crudele? Come si può non farsi aggredire dal vuoto estremo del dolore dell’anima? Stiamo cercando a tutti i costi di tenere in vita i corpi, ma questo bastardo riesce a colpire anche chi non infetta, ammalando le anime dei rimasti sani costringendole a rango inferiore. Le stiamo trattando come abbiamo fatto con i bambini: con l’illusione di difenderli li abbiamo chiusi in casa, senza chiedergli se stessero soffrendo. Chissà se tutto questo è vivere.

Usato

Svuotato nel corpo,
privato dell’anima
si accascia al suolo
per divenire ciò
che non potrà mai essere.

Non diverrà terra,
non rimarrà uomo.

Non viaggerà tra i ricordi,
di chi,
dimenticandolo,
ha lasciato
che rimanesse
nessuno.

Alexandre Dumas – Figlio

Ah! Voi credete, continuò con l’insistenza di chi ha il diritto di dire: Ve lo avevo detto! Ah! Voi credete che basti amarsi e andare a vivere in campagna a condurre una vita pastorale e immateriale? No, amico mio, no. Accanto alla vita ideale c’è la vita materiale, e le più caste decisioni sono trattenute a terra da fili sottili, ma di ferro che non si spezza tanto facilmente.

La signora delle camelie

E non potete dirmi in che modo? No,, tu devi amarmi come io amo te e tutto andrà bene.

La signora delle camelie

MI ricordavo di questa lettura e io, che avrei voluto soffrire per quella donna, temevo che mi accogliesse troppo in fretta e che mi desse troppo presto un amore che avrei voluto pagare con una lunga attesa o un grande sacrificio. Noi uomini siamo fatti così, ed è un bene che l’immaginazione lasci la poesia ai sensi e che i desideri del corpo la concedano ai sogni dell’anima. Insomma, se mi fosse stato detto: avrà questa donna stasera e domani sarà ucciso, io avrei accettato. Mi fosse stato detto: pagate dieci luigi e ne sarete l’amante, avrei rifiutato e pianto, come un bambino che al proprio risveglio vede svanire il castello intravisto durante la notte.

La signora delle camelie

Frida Kahlo

Da quando mi sono innamorata di te, ogni cosa si è trasformata ed è talmente piena di bellezza. L’amore è come u profumo, come una corrente, come la pioggia. Sai, cielo mio, tu sei come la pioggia ed io, come la terra, ti ricevo e accolgo.

Tanto assurdo e fugace è il nostro passaggio per il mondo, che mi rasserena soltanto il sapere, che sono riuscita ad essere quanto di più somigliante a me stessa mi è stato concesso di essere.

Pablo Neruda

Morirei per un tuo solo sguardo, un tuo sospiro che profumi d’amore ed una carezza che riscaldi il mio cuore. Non assomigli più a nessuna da quando ti amo.

Per chi suona la campana

Ernest Hemingway

Non prendere mai alla leggera l’amore. La verità è che la maggior parte della gente non ha mai avuto la fortuna di amar qualcuno; che duri solo oggi e una parte di domani, o duri tutta una lunga vita è la cosa più importante che può capitare ad un essere umano. Ci saranno sempre persone che diranno che non esiste perché non possono averlo. ma io ti dico che è vero, che tu lo possiedi e che sei fortunato, anche se domani morrai.

Per chi suona la campana

Mi piace dormire. La mia vita ha la tendenza a cadere a pezzi quando sono sveglio, sai?