Natalia

Seduto sul lato passeggero perché ero troppo giovane per guidare, ma troppo grande per essere definito adolescente.
I finestrini della macchina aperti, il loro compito era rinfrescare il caldo giunto da qualche giorno su questo pezzo di terra chiamato casa.
La mia autista era una donna convinta di aver terminato parte dei suoi impegni con la natura.
Si parlava con serenità  di argomenti poco arguti, di quotidianità , di nulla, si occupava il tempo.
Non so cosa sia passato nella mente della mia compagna di viaggio, non so perché abbia scelto quel momento preciso, così come non so perché io lo abbia stampato in testa come un filmato appena visto, ma all’improvviso e con un tono della voce trasformatosi immediatamente serio:
“Michele sono incinta”
“mamma cosa hai detto?”
“aspetto un altro figlio o figlia.”
Eravamo a circa metà  anno nel momento in cui la notizia è diventata “ufficiale” ed ha autonomamente fatto il suo percorso.
Così come ha fatto il suo percorso anche la nuova vita portata nel grembo di una donna decisa a volersi rimettere in gioco, e ripercorrere strade viste in precedenza già  due volte.
Il tempo scorre.
Fa freddo, l’inverno ha da poco bussato alla porta dell’emisfero boreale, sono le 07,35 di martedì 27 dicembre 1994, squilla il vecchio telefono a disco all’interno di una casa con una famiglia in attesa di quella notizia:
“pronto chi parla?”
“buongiorno è l’ospedale FateBeneAFarliNascereQuiPerchèSiamoIPiùBravi, lei è il Signor Proto?”
“si sono io;”
“sua figlia è nata l’aspettiamo;”
“arriviamo”.
Questa è stata la venuta al mondo di Natalia, mia sorella, la più piccola, la cocca della famiglia, la viziata per definizione, forse.
Natalia è arrivata come un fulmine a ciel sereno e allo stesso modo si è imposta nelle vite di tutti noi.
Ma il destino è beffardo, si sa, ha aspettato che mi affezionassi a questo scricciolo pieno di energia, capace di mettere di buon umore tutti con versi senza senso degni del miglior grammelot d’annata, per decidere poi di allontanarmi da lei.
Il destino ha provato, forse, a testare la capacità  di continuare ad amare anche da lontano.
Il destino ha cercato di testare se fosse possibile per due persone con 17 anni di differenza, distanti 1200 km, senza la possibilità  di avere una quotidianità , se riuscissero a legare, a creare un rapporto stretto, a crescere insieme nonostante tutto, a parlarsi pur essendo di generazioni differenti.
Ci ha provato; ci hai provato destino ma senza riuscirci.
Siamo cresciuti tenendoci per mano pur percorrendo strade in direzioni opposte, vite differenti, tetti diversi a coprirci.
Siamo cresciuti vicino stando lontano, ma oggi siamo due amici che si amano come fratelli.
Litighiamo come una coppia con cento anni di matrimonio alle spalle, ma incapaci di immaginare una vita senza la presenza dell’altro.
Siamo due persone con la vittoria in tasca sul tentativo fatto dal destino di non farci mai incontrare davvero.
Oggi è il 27 dicembre giorno del suo compleanno.
Oggi Natalia è una giovane donna.
E’ diventata grande, cammina con certezza sulla strada della vita, sgomitando in mezzo agli altri per mostrare chi è diventata e quali talenti madre natura le ha messo in mano.
Natalia avrei potuto farti un regalo, ma così risparmio.
Buon compleanno e goditi questo viaggio detto vita.
Ti voglio bene.

Michele

Conoscenza

Il caldo tepore estivo riscaldava l’aria circostante.
L’assenza di nuvole metteva in risalto la luce brillante della luna, impegnata a provare il vestito elegante che avrebbe indossato il giorno di massimo splendore.
Una miriade di piccoli frammenti brillanti, provenienti da quella luna, continuavano a tuffarsi nelle acque immobili del grande specchio d’acqua adagiato pochi metri più in basso.
Il profumo dei fiori sbocciati da pochi giorni riempiva i polmoni cullando lo spirito.
Al lato, una fila ordinata di alberi dalla grande chioma.
Chiome ricolme di foglie vestite con un mantello verde smeraldo.
Avevano un compito da svolgere: provvedere alla sicurezza del posto.
Sembravano un piccolo esercito silenzioso di soldati in grande uniforme, eleganti nella loro formalità .
Sotto di loro una panchina – legno marrone – ed io seduto a concedermi un momento di pace, silenzio, relax.
Da quella posizione riuscivo a scorgere davanti a me un piccolo muricciolo, un trampolino sulle acque del lago.
A rallegrare, rompendo il silenzio del momento, una famiglia di paperotti parlottanti.
In testa mamma papera, a seguire i giovani e disciplinati figlioletti, tenerissimi nei loro goffi movimenti esercitati ancora troppo poco.
Ad interrompere quella quiete, qualche minuto più tardi, due bambini.
Arrivati correndo dal lato opposto al mio.
Il loro traguardo sarebbe stato quel muricciolo, usato al termine della gara come panchina.
Due bimbi come tanti altri.
Lui: visino timido, capelli cortissimi e biondi, se non fosse stato per la giovane età  avrei potuto azzardare quasi argento.
Lei: faccia furbetta, lunghi capelli neri raccolti in una coda disciplinata e qualche anno in meno di lui.
Seduti uno di fronte all’altro, con una gamba poggiata sulla solida pietra e l’altra penzoloni, un escamotage per non rimanere immobili.
Dalla mia posizione di privilegio riuscivo a notare il loro guardarsi negli occhi, ed ascoltare da bravo impiccione la loro conversazione, una scena molto dolce.
“Sei in vacanza?”
“No io abito qui, in quella casa là  in fondo.”
“Io sono in vacanza, con mamma e papà .”
“Quanti anni hai?”
“Dieci.”
“Perché ridi sempre?”
“Perché non mi piace farmi vedere triste.”
“Tu non ridi mai?”
“Solo quando mi diverto.”
Quei due marmocchi hanno continuato il loro scambio di battute con lo scopo di conoscersi fino all’arrivo del gruppetto dei genitori – i disturbatori -.
Come sempre noi adulti abbiamo la capacità  di rovinare i momenti belli dei nostri figli o dei bambini, privandoli giorno dopo giorno della loro naturalezza, semplicità  o ingenuità .
Ristabilita la composizione delle famiglie sono andati via, ognuno per la sua strada.
Mi piace coltivare l’idea di saperli, il giorno dopo o quelli successivi, nuovamente insieme a raccontarsi le loro giovani vite, a giocare insieme, a costruire un’amicizia nata per caso in quel posto a due passi da un lago calmo e sorridente.
Sono ritornato a distanza di mesi su quella panchina.
Nella stagione opposta all’estate.
È tutto cambiato.
Il cielo è così coperto dalle nubi che la luna sembra essersi nascosta dietro una porta d’acciaio impenetrabile.
Gli alberi hanno perso le foglie, non sono riusciti a non farsi colpire dai proiettili del gelo, e infreddoliti attendono l’arrivo della nuova primavera.
Lo specchio d’acqua una volta piatto e sereno ora è in preda ad uno stato di turbamento, rabbia e malinconia continua.
Il profumo ha abdicato il trono in favore di un olezzo irriconoscibile.
La famiglia dei paperotti non si vede in giro, immagino siano abbastanza cresciuti per affrontare la vita in totale autonomia.
Ma soprattutto non ci sono più quei due bambini.
Non so perché ho sperato di trovarli ancora lì, a giocare fra di loro, divertirsi, a passare il tempo con spensieratezza.
Chissà  dove sono, forse a scuola, forse ad allenarsi in qualche sport o a guardare semplicemente i cartoni in TV, ma ognuno occupato con i propri impegni.
Di certo non sono più lì.

Primavera

L’inverno è stato messo alle strette.
Spinto nel suo angolo subisce, incapace di difendersi, i colpi bassi dei primi caldi portati dal sole.
E’ primavera.
Adesso è lei a farla da padrona e non intende cedere ai ricatti di qualche pioggia invadente, ma sporadica.
Tutto viene rianimato.
Le montagne vengono inondate da una secchiata di vernice verde scuro perdendo il consueto mantello grigio.
Le piante rinascono timide e piene di piccoli germogli rigogliosi.
I primi fili d’erba si affacciano alla nuova vita rompendo il pesante strato di terra che gli ha fatto da scudo e protetti durante il freddo appena lasciato alle spalle.
Sono coraggiosi loro, non temono di essere calpestati e se lo fossero raddrizzeranno la schiena più forti di prima.
Non si fanno abbattere da un inconveniente così banale e prevedibile.
L’insolenza di una comitiva di pettirossi è imbarazzante, non si preoccupano dei vicini animali intontiti dal prematuro risveglio, dopo essere stati coccolati dal letargo invernale.
Devono, anche loro ad ogni costo, partecipare alla festa della nuova vita.
Sentono la necessità  di cantare, urlare, cinguettare, rivendicare il loro diritto di esserci e farsi riconoscere.
Riemergono anche gli uomini.
Cercano, nel rinato tepore, la forza di abbandonare i luoghi sicuri in cui sono stati immersi nei mesi passati.
Una bolla di sapone fatta scoppiare non appena è stata di troppo.
Rinvigoriti dalla luce hanno ripreso ad animare parchi, boschi, prati, laghi e qualsiasi altro posto privo di un tetto, una copertura, qualcosa capace di oscurare la visuale sopra la loro testa.
La necessità  ora è di fare il pieno di caldo, riempire gli occhi con i colori della vitalità , tuffarsi nel verde per riemergere nell’azzurro.
I pittori coloreranno i loro quadri con colori caldi dando ai loro ritratti la forza di sollevarsi dalla tela e prendere vita.
I musicisti riempiranno lo spartito di note così vigorose che sembreranno voler ballare insieme alle evoluzioni praticate dai ballerini.
I poeti scriveranno versi non più inneggianti alla tristezza, ma alla felicità .
Si pensa al futuro.
Si fanno progetti.
Si è ottimisti.
Si cerca di emulare i fili di erba, quelli incapaci di farsi abbattere dalle piccole avversità  che inevitabilmente arriveranno, ci investiranno, ma verranno scrollati di dosso con un leggero movimento delle spalle.
Tutto è più facile, ottenibile, a portata di mano, basterà  chinarsi in avanti per afferrarlo.
Finalmente, ci si potrà  tuffare nella piscina colma di profumi con la corsia in direzione del nuovo periodo di buio pesto, ma nel frattempo potremo godere della bellezza avuta sotto il naso in ogni momento.
Bellezza nascosta solo dall’incapacità  di riuscire a volgere lo sguardo oltre il gelo.
Dopo lo sconforto dovuto ai disegni fatti dai pastelli grigi del freddo sulle tele del nostro quotidiano, avremo la sensazione di poter tutto, basterà  volerlo prendere.
Prendiamolo.

Io o tu?

Domenica pomeriggio. 
È inverno, fa freddo.
Il freddo, oltre a rallentarne i movimenti, rallenta anche i pensieri, le idee, le voglie.
Smaltita l’euforia del sabato sera, si decide di trascorrere questo tempo (che ci traghetta dall’ora del riposo all’ora degli impegni lavorativi) all’interno del guscio protettivo di casa.
Anche io ho preso questa decisione.
Annoiarsi, a volte, è l’unico modo per riposare davvero.
Il sole è quasi tramontato. 
Dalle finestre fa capolino un meraviglioso caleidoscopio di riflessi colorati.
Gli ultimi raggi della giornata, infranti sulle piccole nuvole sparse senza alcun senso nel cielo, regalano uno dei tanti dipinti offerti incondizionatamente dalla natura.
Tutto all’apparenza sembra perfetto, quando una telefonata rompe l’idillio.
“Michi, ho bisogno di parlare, vieni.”
Non una domanda, lo raggiungo.
Arrivato, lo vedo seduto nell’ultimo tavolo a sinistra di questa piccola sala circondata da grandi vetrate.
I divanetti in pelle, verde scuro, vuoti, lo isolano dai pochi avventori presenti.
Le luci calde sulle pareti, colorano l’ambiente con un insolito maquillage vintage. 
In mano un bicchiere, vino, rosso.
Il viso triste, cupo, assorto.
Gli occhi bassi, a fissare il liquido innanzi a lui, tradiscono i suoi pensieri nascosti.
Mi siedo di fronte, lo fisso.
Un fiume in piena mi travolge.
Una valanga disordinata di parole, scaccia violentemente i miei pensieri frivoli del momento.
Il racconto, procedendo a briglia sciolta, mi permette di comprendere l’accaduto, ma soprattutto mi permette di comprendere cosa lo tormenta.
Una frase su tutte lo riassume.
Per cercare di non mentire, ha deluso nuovamente una persona importante.
Ecco, tutto ruota intorno a questo.
Un duopolio in cui tutti ci siamo trovati almeno una volta.
Mentire o deludere?
Scegliere il bene interiore proprio o quello dell’altro?
Perché alla fine la scelta ricade sempre sulla stessa domanda.
Decidere chi è più importante in quel momento:
io o tu?

Il peggio di te

Sono giornate gelide.
Monsieur inverno si è totalmente e incondizionatamente impossessato di ogni angolo.
Ha steso la sua immensa coltre, incurante di chi o cosa potesse essere schiacciato dalle sue pesanti mani.
Si stenta a riconoscere quel mondo estivo, in cui i giorni erano pieni di vitalità , forza e voglia di vivere, alimentati dall’incessante opera del Dio Apollo. 
Anche lui ha preso la sua decisione: è arrivato il momento di impegnarsi meno.
Tutto è cupo, grigio, nascosto, quasi furtivo.
La natura ha perso i suoi colori.
Gli uomini si nascondono dietro i loro avvolgenti e caldi vestiti, ma i loro volti trasudano freddo.
Condividono con l’inverno lo stesso mancato tepore.
Siamo lì, con gli occhi bassi, preoccupati di poter riscaldare con un sorriso un malcapitato sconosciuto incrociato per caso.
Anche la coppia di fidanzati a pochi metri da me ha la stessa espressione.
Si tengono per mano, ma i loro visi sono distanti.
Sono vicini con il corpo, ma la loro anima non si sovrappone.
Non più.
I loro occhi descrivono, come un libro aperto, ogni pensiero.
Sono tristi, arrabbiati, lontani.
L’alchimia di una volta svanita.
I giorni felici un lontano ricordo.
Il piacere di essere insieme una inevitabile ipocrisia.
Parlano a voce bassa.
Non vogliono far trapelare i motivi del loro dissentire.
Ma i movimenti del corpo non mentono: sono bruschi, stizziti quasi innaturali.
Litigano.
Mi sembra di essere affacciato ad una finestra.
Vederli, ricorda un incontro di box in cui i due pugili si scambiano colpi ben assestati.
All’improvviso lei lascia la mano di lui.
L’allontana violentemente.
Il suo viso assume i connotati tipici della rabbia.
Gli sussurra qualcosa nell’orecchio.
Anche il viso del giovane ragazzo cambia, gli occhi si abbassano, le labbra si inarcano disegnando una piccola parabola. 
Non replica.
È come se un pugno lo avesse colpito all’improvviso, non si aspettava quel colpo andato a segno.
La battaglia è terminata.
Può solo andare via, abbandonare lo scontro.
Ed è in quel momento che riesco ad ascoltare la sua ultima frase:
“Hai dato il peggio di te”.
Va via.
Riecheggia ancora quella frase dentro di me.
“Hai dato il peggio di te”.
Se ci pensiamo, quel ragazzo ha ragione. 
Siamo sempre pronti a dare il peggio di noi con le persone a cui vogliamo bene.
Siamo sempre pronti a far prevalere i nostri egoismi con chi sappiamo ci perdonerà  tutto.
Siamo fin troppo bravi a vincere battaglie contro chi non vorrà  mai battersi con noi.

Immerso in se

Porto di Campomarino di Maruggio (TA)

Immerso nel suo silenzio, ascolta l’infrangersi delle onde del mare contro i possenti blocchi di cemento. 
Il profumo della brezza lo avvolge come un mantello invisibile. 
Il sole ancora caldo, mentre inizia il suo lungo tuffo nell’acqua cristallina, lo coccola cantando la sua melodia preferita. 
Nulla intorno a lui se non se stesso.