Oggi,
apro gli occhi
come quel giorno in cui
ho capito
di essere stato accecato
dal buio
della sua indifferenza.
Suicidio
Un uomo alto, forte, vigoroso, pieno di vita.
Un uomo capace di esaudire – con la forza del lavoro – i propri desideri.
Un uomo pieno di luce, dentro, in grado di dare luce, fuori.
Cielo sereno sopra di lui, aria limpida intorno a lui.
All’improvviso o lentamente, non si sa: le nubi.
Il buio si appropria dello spazio attorno, prima totalmente nitido.
Il fumo nero e denso riempie le narici, rallenta il respiro, ingombra i polmoni.
Un grosso zaino – carico di pietre – pesa sulle spalle incapaci di sostenere un peso mai immaginato.
I volti – prima amici – trasformati in ritratti da scrutare da lontano, irriconoscibili.
I ricordi – in precedenza locomotive trainanti la gioia di affrontare le giornate – totalmente alterati o trasformati in maschere inespressive.
Come un arcobaleno si dissolve alla luce del sole, così un uomo viene cancellato da se stesso.
Immagino possa essere questo l’inizio della fine di una persona.
E non parlo della fine fisica, naturale e inesorabile per tutti, no.
Bensì di quel senso di impotenza, incapacità , frustrazione, isolamento, tristezza, buio.
Quella convinzione – sbagliata – di non poter più risolvere nulla con la forza del proprio essere.
Come una goccia di nero petrolio inquina – espandendosi – un intero contenitore d’acqua limpida, così il senso di immobilità , partendo dal centro dello stomaco, si propaga – come un cancro – verso ogni cellula dell’uomo.
E tutto questo convince, la mente prima e l’anima dopo, a trovare una sola ed unica soluzione.
La soluzione più estrema, duratura e liberatoria per l’animo di quel pover’uomo.
La morte tramite il suicidio.
Reso totalmente cieco dalle sabbie mobili in cui è sprofondato, dove trova quell’attimo di spietata lucidità , tale, da infondere in sé il coraggio per annientarsi, annichilirsi, distruggersi?
Quali pensieri traboccano dalla sua testa nei minuti precedenti?
E se quell’uomo, con questo gesto folle privo di qualsiasi logica, riuscirà ad alleviare i brividi costanti, duraturi, impietosi che lo tenevano imprigionato nella gattabuia della sua mente, cosa ne sarà di chi quel gesto potrà e dovrà solo subirlo?
Chi rimane si ritroverà all’improvviso con la faccia a due centimetri da un mastodontico autocarro d’acciaio lanciato a tutta velocità su di sé.
L’impatto sarà inevitabile – in pieno viso – e il corpo verrà scaraventato a cento metri più in là , martoriato.
E farà talmente male da rimanere intontiti per chissà quanto.
Rimarrà una ferita sempre aperta in cui il tempo – spietato e cinico – infilerà le sue dita sporche di alcol puro solo per rinnovare e alimentare il dolore.
Chi affronterà il giorno dopo, dovrà scontrarsi con la frustrazione, il senso di colpa, l’incredulità di non aver visto, notato il sole tramontare alle spalle di quell’uomo.
Chi dovrà continuare a vivere, dovrà farlo con il cuore ricoperto da un grosso strato putrido di nero carbone, denso, sporco, impenetrabile.
Chiunque gli abbia voluto bene, lo abbia amato, sarà costretto a guardarsi allo specchio, scorgendo la propria immagine riflessa: ostruita dall’ombra dell’impotenza di non averlo potuto aiutare prima e non poter rimediare dopo.
Chi si macchia di comportamenti immondi può essere acciuffato, giudicato e punito, ma chi rivolta contro se stesso la furia più cieca deve essere compreso, perdonato e ricordato.
Così come dovrà perdonarsi – per colpe inesistenti – chi si porterà dietro il ricordo di un uomo – guida per altri uomini – presente, ormai, solo nei ricordi.
Perché se tragedia deve essere: rimanga isolata.
Perché se tragedia deve essere: non si porti dietro anche la morte dell’anima di chi, quella tragedia, l’ha subita come una doccia fredda chiuso all’interno di un luogo apparentemente sicuro.
Perché se tragedia deve essere: sia reinizio di vita nuova ripulita dai sensi di colpa.