E’ impossibile averlo perso.
Dove lo avrò mai lasciato?
Ho rovistato in ogni angolo di casa e non riesco a trovarlo.
Sarà sicuramente in uno dei cassetti del piccolo mobile all’angolo.
Lì non guarda mai nessuno, anche la polvere lo ignora, ma ormai manca da perquisire solo lui.
E mentre sono alla ricerca dell’oggetto perduto salta fuori, dal nulla, una vecchia foto.
Una foto scattata con una macchina fotografica a rullino, stampata su carta e riposta in attesa di scatenare ricordi, emozioni.
E’ la fortuna di chi come me ha vissuto quegli anni ed ora può permettersi il lusso di ritrovare, per caso, pezzi di vita sparsi qua e là .
Le foto sono così, se ne stanno in agguato, quatte quatte in attesa di poterti aggredire, saltare al collo e morderti.
Un po’ di luce e sbam, ti danno un pugno nella pancia e smetti di respirare per un istante.
Le emozioni legate ad una foto sono come una valanga, puoi galleggiarci sopra, così come puoi esserne completamente sepolto.
Non è da meno questa.
Un bimbo in braccio alla sua mamma.
Una donna nel pieno della vita nei suoi anni più belli.
Una giovane donna con chissà quali aspettative, desideri, speranze.
E’ molto strano vedere i propri genitori da giovani, sarebbe stato bello conoscerli, parlarci, uscirci insieme.
Chissà se saremmo potuti essere amici o avremmo litigato con la stessa forza di oggi, tanto poi tutto passa, si sistema, senza rancore, volendosi più bene di prima.
Ma basta fare pensieri di questo tipo, c’è un oggetto da cercare e lui non vuole farsi trovare.
La pace
Le nostre giornate, solitamente, sono scandite da ritmi in grado di far impallidire un batterista metal mentre si esibisce in uno dei suoi assoli più riusciti.
Incastriamo il lavoro, gli impegni, le commissioni come fosse un immenso puzzle.
Puzzle costruito, pezzo dopo pezzo, facendo attenzione a scovare quello giusto al primo tentativo.
Ma ahimè, a volte capita, di prenderne uno errato e inevitabilmente tutto deve essere riprogrammato, rivalutato, aggiustato.
Un cascata di eventi difficile da contenere.
Allo stesso modo gestiamo il tempo libero.
Avidi nel voler imparare nuove attività , conoscere nuove persone, provare esperienze diverse, da non essere capaci di godere del presente.
Nella testa il pensiero ricorrente è uno solo: il momento successivo.
Lo facciamo tutti, lo faccio anche io.
Questa routine andrà avanti finché non si avvertirà l’opprimente necessità di una pausa, di staccare, di dire basta.
E’ quello il momento in cui sfrutti la fortuna di avere a disposizione dei posti magici dove potersi ricaricare, svuotarsi, riprendere a vivere.
Ognuno di noi ne ha uno, non è un posto oggettivo, ma scelto tra tanti, il più delle volte trovato per caso.
Il mio: una panchina, verde.
In una piazza dalla pianta quadrata e illuminata interamente da un tiepido sole di giorno ed un esercito di lampade dai colori caldi di notte.
Circondata su tre lati da storici palazzi costruiti lì volutamente – per abbracciare chiunque passi o si fermi in quell’angolo – ricoperta da brillanti e levigate pietre naturali.
Il quarto lato aperto.
Una finestra affacciata su una distesa d’acqua azzurra mossa leggermente dai venti spinti verso il basso dalle vicine montagne.
Acqua mai immobile, ricoperta da una fitta rete di increspature in movimento.
Questo movimento diffonde una delicata sinfonia dai toni lievi tale da permettere all’anima di riprendere a respirare.
Ed è lì, in quel posto specifico dove tutto si ferma, dove non ci sono lotte, dove si è soli con se stessi che tutto si riallinea, tutto ritorna alla normalità .
Perché nonostante ci siamo costruiti una vita fatta di affanni, regole, piccoli scontri travestiti da consuetudini, a volte quello di cui abbiamo bisogno è solo un po’ di pace.
Vecchio al balcone
Ci sono giorni in cui non si ha nulla da fare: nessun impegno, nessuna sveglia, nessuna scadenza.
Sei consapevole di poter oziare, poltrire, girarti i pollici senza subire le ire dei sensi di colpa: sempre fin troppo presenti, per fin troppi motivi.
Ti è permesso usare il tempo solo per sprecarlo, buttarlo, lasciarlo andare.
Oggi è un giorno di quelli, non il primo, non l’ultimo, uno dei tanti.
Un alito di vento fresco muove i suoni dall’esterno della casa fin dentro le stanze.
Trasporta sulle sue spalle le voci di un gruppo spensierato di amici, le risate dei bambini troppo impegnati a rincorrersi, i canti di una coppia di passerotti intenti a corteggiarsi.
Io invece, me ne sto in panciolle avvolto dal torpore regalatomi dalla morbidezza del divano.
I piedi poggiati su una sedia capitata lì per caso, mi regalano una posizione tale da far invidia agli antichi romani mentre consumavano i loro pasti nel triclinio.
Sollevando lo sguardo davanti a me si apre una grande finestra.
Un oblò sul mondo esterno.
Un esterno colorato da giovani foglie nate sugli alberi da poco, dai tetti ripuliti dalla recente pioggia e sullo sfondo, aguzzando la vista, le non troppo lontane montagne.
A rovinare la morbidezza di questo dipinto d’artista: un grosso palazzo.
Un ingombrante rettangolo grigio fa da sfondo a buona parte della vista.
Il progettista di questo mostro, nel peggior giorno della sua vita, lo ha disegnato tracciando all’interno del rettangolo tanti quadrati tutti uguali fra loro.
Una miriade di balconcini abbandonati a se stessi privi di qualsiasi personalità .
Tutti uguali, tutti anonimi, tutti tristi.
Tutti tranne uno.
Il primo in alto a sinistra è abitato costantemente da un anziano signore.
Un vecchietto sorridente, sguardo attento, capelli color argento.
Piegato dal peso degli anni si muove appoggiato al suo immancabile bastone di legno nero: piccoli passi lenti, ma dignitosi, sicuri, certi.
Sfidando la monocromia del palazzo, ha arredato la sua loggia con quattro gerani rossi appesi al balcone, una pianta con grandi foglie verdi su un lato e una piccola seggiola di metallo marrone sull’altro.
Il suo piccolo trono.
Sì, perché lui è sempre lì, seduto su quel trono a guardare cosa succede al di sotto dei suoi piedi, ma è ciò che sembra con un’occhiata superficiale.
Se invece si ha la fortuna di poterlo osservare più spesso, si noterà la sua presenza sempre in quella stessa posizione, con lo sguardo rivolto sempre verso la stessa direzione.
Non so perché sia sempre lì, ma:
voglio pensare sia lì ad attendere il ritorno della compagna di una vita andata via troppo presto;
voglio pensare sia lì ad attendere il ritorno di un figlio troppo occupato con la sua quotidianità per ricordarsi di avere un padre ad attenderlo;
voglio pensare sia lì ad attendere un amico che non verrà mai.
Ma non voglio saperlo lì triste, perché se ha colorato il suo balconcino rompendo la malinconia del grigiore del suo palazzo non può essere triste, ma è solo un vecchietto dalla incrollabile speranza di poter aprire la porta d’ingresso e aggiungere, su quel balconcino, un’altra sedia a fianco della sua.
Velocità del tempo
Ci sono momenti in cui si è costretti ad attendere, aspettare.
Dare al tempo il tempo necessario perché scorra, proceda, vada nella sua direzione.
Non fa sconti a nessuno, il movimento continuo e regolare delle lancette è identico per tutti.
Potenti e ultimi non possono sottrarsi alla sua ingerenza continua, ma questo regala un finto senso di giustizia.
Si erge come un giudice sul suo grande trono, logorato dall’estrema usura, brandendo un bastone nella mano destra e con alle spalle il motto:
“Tutto si inchinerà al mio cospetto”.
Giudice capace di comminare una sola pena: la fine di se stesso per gli altri.
Mai un giudizio diverso, mai una seconda possibilità , mai un errore.
Ma prima di essere inesorabilmente giudicati, lo sentiamo scorrere sulla nostra pelle a velocità diverse.
Siamo incapaci di farci trasportare sul suo dorso viaggiando sempre alla stessa velocità .
Sono sensazioni.
Sensazioni sempre contrarie alla volontà .
Nel momento in cui vogliamo passi velocemente, beffardo, si prende gioco di noi rallentando il suo vagare, al contrario quando desideriamo rallenti farà di tutto per spostarsi il più velocemente possibile.
E questo atteggiamento a volte fa arrabbiare, preoccupare, annoiare, ma impotenti possiamo solo subirlo.
E’ strano rintracciare, vedere, osservare questi comportamenti nei perfetti sconosciuti ritrovatisi insieme a noi per caso.
Eccoli.
A destra, un uomo di mezza età , dai capelli grigi, il viso fin troppo solcato da rughe abbondantemente premature e profonde occhiaie scure, mette in evidenza una vita fatta da tanti, troppi momenti difficili.
Ed è li a picchiettare l’indice sulla solida superficie su cui la mano si poggia.
Per lui il tempo vagabonda senza meta e senza preoccuparsi troppo di accelerare.
Lui lo vorrebbe più spedito, solerte, ma non sarà accontentato.
A sinistra, una bimba dai lunghissimi capelli biondi, occhi color cielo, un sorriso contagioso, corre, anzi no, scimmiotta una corsa con le braccia aperte verso il papà : l’aspetta un balzo in aria tale da far impallidire il decollo di qualsiasi aereo.
Per lei, quel momento, che forse non ricorderà neanche, sta scorrendo fin troppo velocemente e sono certo vorrebbe non finisse mai.
Io nel mezzo a confrontare questi due mondi dal tempo identico, ma vissuti come ai lati opposti di uno stesso universo.
Io nel mezzo a pensare: come si fa a non sprecarlo, non bruciarlo?
Non ho una risposta.
Posso solo vivere il tempo alla sua velocità , come tutti, d’altronde.
Primavera
L’inverno è stato messo alle strette.
Spinto nel suo angolo subisce, incapace di difendersi, i colpi bassi dei primi caldi portati dal sole.
E’ primavera.
Adesso è lei a farla da padrona e non intende cedere ai ricatti di qualche pioggia invadente, ma sporadica.
Tutto viene rianimato.
Le montagne vengono inondate da una secchiata di vernice verde scuro perdendo il consueto mantello grigio.
Le piante rinascono timide e piene di piccoli germogli rigogliosi.
I primi fili d’erba si affacciano alla nuova vita rompendo il pesante strato di terra che gli ha fatto da scudo e protetti durante il freddo appena lasciato alle spalle.
Sono coraggiosi loro, non temono di essere calpestati e se lo fossero raddrizzeranno la schiena più forti di prima.
Non si fanno abbattere da un inconveniente così banale e prevedibile.
L’insolenza di una comitiva di pettirossi è imbarazzante, non si preoccupano dei vicini animali intontiti dal prematuro risveglio, dopo essere stati coccolati dal letargo invernale.
Devono, anche loro ad ogni costo, partecipare alla festa della nuova vita.
Sentono la necessità di cantare, urlare, cinguettare, rivendicare il loro diritto di esserci e farsi riconoscere.
Riemergono anche gli uomini.
Cercano, nel rinato tepore, la forza di abbandonare i luoghi sicuri in cui sono stati immersi nei mesi passati.
Una bolla di sapone fatta scoppiare non appena è stata di troppo.
Rinvigoriti dalla luce hanno ripreso ad animare parchi, boschi, prati, laghi e qualsiasi altro posto privo di un tetto, una copertura, qualcosa capace di oscurare la visuale sopra la loro testa.
La necessità ora è di fare il pieno di caldo, riempire gli occhi con i colori della vitalità , tuffarsi nel verde per riemergere nell’azzurro.
I pittori coloreranno i loro quadri con colori caldi dando ai loro ritratti la forza di sollevarsi dalla tela e prendere vita.
I musicisti riempiranno lo spartito di note così vigorose che sembreranno voler ballare insieme alle evoluzioni praticate dai ballerini.
I poeti scriveranno versi non più inneggianti alla tristezza, ma alla felicità .
Si pensa al futuro.
Si fanno progetti.
Si è ottimisti.
Si cerca di emulare i fili di erba, quelli incapaci di farsi abbattere dalle piccole avversità che inevitabilmente arriveranno, ci investiranno, ma verranno scrollati di dosso con un leggero movimento delle spalle.
Tutto è più facile, ottenibile, a portata di mano, basterà chinarsi in avanti per afferrarlo.
Finalmente, ci si potrà tuffare nella piscina colma di profumi con la corsia in direzione del nuovo periodo di buio pesto, ma nel frattempo potremo godere della bellezza avuta sotto il naso in ogni momento.
Bellezza nascosta solo dall’incapacità di riuscire a volgere lo sguardo oltre il gelo.
Dopo lo sconforto dovuto ai disegni fatti dai pastelli grigi del freddo sulle tele del nostro quotidiano, avremo la sensazione di poter tutto, basterà volerlo prendere.
Prendiamolo.
Pregiudizio
Non possiamo conoscere tutti, fortunatamente.
Durante il lungo cammino, purtroppo breve per alcuni sfortunati, percorso sul mucchio di terra calpestato ogni giorno, ci imbattiamo in persone nuove.
Sconosciuti fino a quel momento.
Molti continueranno ad esserlo.
Una piccola parte, al contrario, condividerà con noi un pezzo di strada, qualche passo o un lungo tragitto.
Alcuni ci guarderanno da lontano.
Altri ci accompagneranno per mano.
Questi ultimi, forse, saranno persone scelte da noi.
Ma prima di scegliere, di condividere, saremo costretti a passare dal solito rituale.
Una stretta di mano, energica o fiacca.
Un sorriso, il più delle volte finto e di circostanza.
Un avventato scambio di nomi, in cui le voci sovrapposte e quasi mai comprese fanno da sfondo ad uno sconosciuto, passato dalla parte opposta della barricata.
Ed è in quel momento, in quei pochi secondi che si forma dentro di noi un giudizio sommario.
In quel preciso istante cataloghiamo il nostro nuovo vicino.
Gli appiccichiamo in fronte un adesivo con appuntato un aggettivo che lo descriverà in quel modo, quasi per sempre.
Simpatico, antipatico, carino, viscido, interessante… e avanti così con tutti gli aggettivi possibili.
Raramente strapperemo quell’adesivo per sostituirlo con quello reale o meglio, quello più appropriato.
Non ci sono motivi precisi per farlo, lo facciamo e basta.
Ci affidiamo a questo strano senso.
Il sesto.
Confidiamo in lui e nella sua innata capacità di non commettere errori.
Ci mette in allerta, così come ci dice sottovoce “non sembra pericoloso”.
C’è chi si fida ciecamente, chi cerca in tutti i modi di zittirlo, non considerarlo, ignorarlo, ma sarà sempre lì a sussurrarci “te l’avevo detto”.
Ha sempre ragione lui.
Ma l’errore è dietro l’angolo, anche per chi non sbaglia mai.
Anzi il tonfo sarà più fragoroso, rumoroso, duro e farà più male.
Perché quando l’adesivo è sfacciatamente sbagliato e la fiducia riposta nel sesto senso è marcata, la ricetta per la tempesta perfetta è servita.
Ti privi della possibilità di farti influenzare da qualcuno per cui ne sarebbe valsa la pena.
Ti privi della possibilità di imparare da quel qualcuno.
Ti privi della fortuna di crescere con chi è migliore di te.
Ma la batosta la prendi e la senti quando ormai quel qualcuno è di spalle e sta andando via per la sua, di strada.
I figli
Gentilezza
Un vecchio edificio dalla forma perfetta, fuori.
Il palcoscenico giusto per la rappresentazione quotidiana di ciò che avviene, dentro.
Sulla sinistra del grande salone centrale, gli ingressi delle innumerevoli stanze svelano la presenza di un consueto film ripetuto usualmente dalle persone del posto.
Un alveare di minuscoli ingressi dove la gente si stipa per i motivi più disparati.
Sono tutti uguali, quasi identici.
Stessa forma, stessa dimensione, stesso colore.
Nessun particolare mette in risalto uno a discapito dell’altro.
Chi ha disegnato quel posto lo ha fatto inserendoci un pizzico di ironia.
Se non conosci il posto ti ci devi perdere almeno una volta.
La parafrasi della vita di ognuno di noi.
L’eccezione la si scopre conservando la pazienza e avendo il coraggio di arrivare alla fine.
Ancora la parafrasi della vita di tutti i giorni.
L’ultimo ingresso, prima dell’uscita, fa da supporto ad un piccolo quadro con all’interno incastonata una frase.
Non un’opera d’arte, non un dipinto, non un basso rilievo, no.
Una frase.
Facile da ricordare.
Quasi banale leggendola con la dovuta superficialità .
“La gentilezza ci rende persone migliori”.
Ironicamente, la scoperta del secolo.
Chissà perché qualcuno abbia sentito la necessità di rimarcare qualcosa di così ovvio.
Chissà perché proprio in quel luogo dove tutto sembra uguale.
Qualcosa che tutti noi facciamo e perseguiamo con fermezza, credendoci, ogni giorno.
Invece no, purtroppo non è così.
Quel qualcuno è stato saggio, ha cercato di ricordarci cosa dovremmo essere.
Persone gentili.
I gesti di tutti i giorni, invece, raccontano una storia diversa.
Ci basta così poco per strappare con violenza quel quadro, distruggendolo in milioni di minuscoli pezzetti.
Riusciamo a fatica ad esserlo con noi stessi, ma soprattutto con le persone vicine.
Tutti troppo preoccupati ad inseguire i propri egoismi.
Pronti a giustificare con i mezzi più disparati una parola di troppo, un tono fuori luogo, un rimprovero non dovuto.
Guardiamo con sospetto chi non conosciamo, e come tale, il più delle volte lo ignoriamo.
Un gesto gentile lo regaliamo come si regala un gioiello prezioso.
Per farlo risaltare, per raccontarlo e farlo raccontare.
Non perché lo sentiamo nostro.
Non siamo più abituati a vedere la gentilezza come un pregio da coltivare, annaffiare e far sbocciare ad ogni occasione.
Dovremmo cominciare a crederci e dimostrarlo per esserlo davvero.
Gentili.
Donna con le palle
“Ciao, oggi è davvero una splendida giornata, non trovi?”
“Si guarda, proprio bella.”
“Cos’è successo?”
“Nulla…”
Iniziano così, sempre allo stesso modo le conversazioni in cui ti rendi conto di avere davanti una persona ferita, triste, afflitta.
E’ un copione visto più volte, con la capacità di ripetersi ad ogni occasione.
Un rituale a cui nessuno è stato permesso di non partecipare.
Ed in quel momento spetta a te la decisione, lo sliding doors dei tempi moderni:
far finta di nulla con un banalissimo “dai, non ci pensare, anche io ci sono passato” oppure decidere di avere davanti il viso di una persona talmente importante da sentire la necessità di capire, sapere, comprendere.
Non perché si abbia la presunzione di poter risolvere il problema, di essere determinante, ma perché si è consapevoli di avere in mano la ricetta richiesta dal viso che ti guarda:
togliersi quel peso sullo stomaco, vomitarlo, espellere quel corpo estraneo capace solo di rovinare l’armonia della serenità .
Sai perfettamente cosa ci vuole.
Una piccola spinta al coperchio traballante, in bilico sul bordo di quel vaso di Pandora, con la consapevolezza di lì a poco, di essere travolto da una valanga di neve fresca, gelida, ma pesante.
Decidi di togliere quel tappo, è il punto di non ritorno, dai la spinta.
All’improvviso tutto muta.
Il viso precedentemente scuro diventa madido.
Gli occhi bassi lasciano il posto alle pupille completamente esposte, nerissime.
Le spalle chiuse su se stesse si riaprono permettendo ai polmoni di respirare più profondamente.
Le labbra arcuate si trasformano nel mezzo per tirare fuori il brutto rospo incastrato in gola da troppo tempo.
La rabbia, durante il racconto, diviene l’emozione preponderante, perché regala la forza per ricordare, esporre chiaramente e con la giusta nitidezza il vissuto, l’episodio, l’accaduto.
Allo stesso modo, il luogo che ci circonda diventa uno spazio senza contorni, indefinito, nulla può distrarre l’attenzione dal film a cui stiamo assistendo.
E il racconto si conclude molte volte con una frase precisa, netta:
“…perché io sono una donna (un uomo) con le palle e non crollo.”
Mio malgrado, questa affermazione mi lascia sempre titubante.
Perché?
Perché si sente la necessità di voler mostrare questa forza apparente?
Perché si sente la necessità di sembrare imperturbabili?
Come se nessuno ci potesse scalfire, toccare, ferire.
Perché non si può ammettere di essere fragili, di aver bisogno di aiuto, di non riuscire a farcela?
Cosa spinge l’essere umano a voler dare un’immagine distorta di se?
Perché non si può essere semplicemente se stessi?
Esserci
Premessa:
questa foto è stata scatta per la mostra “Autofocus” ideata e prodotta dalla fotografa Alice Asinari ed è per questo di sua proprietà .
Questo è il racconto di come mi sono trovato invischiato in questa situazione:
Amici, una tarda domenica sera, mentre sfuggono dal freddo.
Qualche seggiola, un tavolino e poggiati sopra, alcuni bicchieri gelati.
La schiuma bianca traboccante aggredisce il vicino e indifeso liquido incolore analcolico.
La debole luce riscalda l’ambiente tenuto volutamente privo di passionalità .
Immersi tra gli affluenti delle parole, le conversazioni, i racconti, i ricordi.
Dalla faretra colma di frecce, vengono prelevate e scagliate idee nel vuoto.
Tra di esse, una colpisce il centro del bersaglio.
Involontariamente, ma lo fa.
E così ti ritrovi ad essere tu, per una volta, il cerchio rosso al centro del bersaglio.
Colpito e affondato da una di quelle frecce.
Perché quando un amico, un’amica in questo caso, racconta involontariamente di non essere riuscita a risolvere un piccolo intoppo, non puoi fare a meno di offrire un appiglio a cui aggrapparsi.
E da tutto ciò ti ritrovi a far parte di un’idea prima, di un progetto dopo.
Idea voluta, curata e prodotta dalla momentanea proprietaria di uno di quei bicchieri.
Idea che mi ha permesso, insieme a tanti altri ragazzi, di essere un attore diretto dalla regista di tutto.
Idea che alla fine ha dato come risultato questa foto.
E quella che doveva essere una soluzione ad un intoppo, si è trasformata in una nuova esperienza per me.